A Charlotte Rampling, che di sicuro se ne intende, piacque subito. Non che all’intelligenza di Elena Radonicich serva tempo per farsi scoprire. Né alla sua bellezza. E dato che su queste caratteristiche non si tentenna, l’attrice ci stuzzica sfoderando tribolazioni e sfaccettature a iosa. C’è da divertirsi, insomma, con l’interprete di Moncalieri, dalle ascendenze paterne slave, diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia, presente al cinema, in televisione, dove non è sfuggita al commissario Montalbano, e a teatro, Katharina Blum dall’onore perduto. Anche la sublime Rampling deve essersi divertita, sul set di Tutto parla di te di Alina Marazzi, a dare alla giovane collega, la sua sentenza sul fumo che non c’entra con la prevenzione delle malattie, ma con lo stile il quale, senza dubbio, previene parecchi guai.

Torneremo sul fumo, ma se cominciassimo con il rossetto rosso?

Volentieri. Il rossetto rosso funziona così: è una grande arma che spesso (ridacchia n.d.r.) finisce per essere usata contro se stessi. Perché una, con il rossetto rosso, che non è un trucco, ma un’attitudine, è convinta di appigliarsi. Hai presente quando sei veramente giù di tono, piangi, sdraiata sul pavimento, depressa? Solitudine, clima avverso. Dopo ore e ore, e c’è soltanto la terra a tenerti sennò saresti sprofondata, a un certo punto dici: “Vabbè basta, bisogna vivere”. E quindi che cosa fai tu, ragazza, donna bionda, o non bionda, ma comunque influenzata dal mondo intorno a te? Pensi: “Adesso mi faccio un giro”. Cerchi di farti salvare dal mondo esterno.

Un’idea…

Balzana. Quanto mai balzana. E a volte questa decisione può portare al fatto che una si metta il rossetto rosso. Il problema è che magari tu lo metti benissimo, ma poi senza accorgertene te lo sbavi, e pochi metri dopo essere uscita ti specchi in una vetrina: il riflesso restituisce qualcosa di drammatico, di definitivo. E sei pronta a ricadere da molto più in alto perché il mondo ti ha restituito un’immagine di te sul viale del tramonto, qualunque sia la tua età.

Un tramonto esistenziale?

Esatto. Ci hai provato e hai fallito: è fatale. In quei casi: togliersi il rossetto immediatamente, con gesti di rabbia, e tornare a nascondersi. Fino al prossimo tentativo.

Che non sarà più quello?

Non è detto, ci sono errori che è bello rifare. Io lo ripeto perché c’è sempre quella volta su cinque che va. Intercetti uno sguardo… Ma è un po’ che non lo faccio.

Non ti sei trovata a terra?

Convivo, è complicato. E ho una bambina.

Ma pensa!

Quella bella depressione non me la posso più permettere. Ho quasi un po’ di rimpianto. Lo faccio in hotel, semmai. L’hotel si presta: arrivi e c’è il tempo sbagliato, le persone non sono simpatiche, il cibo non è buono. Ti bussano per rifare la camera e tu non apri.

L’hotel è legato soprattutto al lavoro?

Sì, mi piace andare negli hotel. Chiaramente belli, puliti, se possibile con fascino, fané. Però sto invecchiando e dovrei arrivare un giorno prima dell’impegno per capire se dormo bene, se c’è l’aria, se ci sono le campane. Madonna, quanto sono peggiorata.

Tra l’altro non fumi più in santa pace per via di Charlotte Rampling.

Quando avevo venticinque anni mi disse: “Puoi farlo, ma sei volgare, se fumi dopo i trentacinque”. Mi sono giocata il decennio di margine, fumando come una pazza, con l’interruzione per gravidanza e allattamento. Adesso scrocco. Scrocco troppo, in maniera fastidiosa: se voglio una sigaretta posso avere davanti il Papa e gliela chiedo senza pudore, persino se è la terza. Faccio una scena nella quale mi scuso, mi prostro - in effetti provo vergogna - ma è più forte il vizio. Insomma, finora ho raccontato il meglio di me (ride n.d.r.).

Parliamo di ruoli?

Non so cosa dire.

Il ruolo del momento?

Il ruolo del momento è proprio il mio, nella mia vita. Non l’ho capita mai veramente questa faccenda dei ruoli. Certo, il lavoro dell’attore è costruito sui ruoli, eppure ogni ruolo è una tale sintesi espressiva di aspetti tanto diversi che possono essere contrastanti, spesso in contraddizione, quasi invisibili, quasi impossibili da fotografare, da individuare. Forse si possono sentire, ma descriverli è molto riduttivo. Del resto è come quando ti descrivi: dici una cosa e sai mentre la stai dicendo che sei in contraddizione con una delle tante parti di te.

Io sono cangiante. Da attrice prendo decisioni sui personaggi e le disattendo. Ti viene chiesto di interpretare un ruolo perché serve a uno scopo, affinché la narrazione porti a un messaggio che il regista, lo sceneggiatore, il drammaturgo vogliono e che non è quello che voglio io. Quello che voglio io non lo so e manco mi interessa saperlo. Mi interessa veicolare il pensiero degli altri, sono a servizio, e lo faccio d’istinto. Anche nella vita, lo sto capendo mentre lo dico, l’utilità di un ruolo è esclusivamente in funzione di quello che serve nel computo generale.

In ogni caso nella vita io fuggo come un leprotto dai ruoli, proprio li detesto, mi danno fastidio perché sono fratelli maggiori delle etichette.

Sono contro la libertà?

Certo, compresi quelli importanti: la madre, la fidanzata. E l’attrice? Per carità, è vero che qualcosa ci definisce, che non siamo del magma sparso, ma alcuni ruoli sono delle gabbie e quindi uno diventa una specie di circense per starci dentro senza sentire le sbarre. Io poi sono claustrofobica, nell’anima. A breve lo sarò fisicamente. Darsela a gambe non significa abbandonare i luoghi e le persone, ma dico: se pensavate che fossi questo… maramao. Che poi è tutta una paura mia, agli altri non gliene frega niente.

C’entra con il non amare le radici piemontesi? Non amare è grossolano, forse.

Ci sono lati che amo. Non lo dico per quei quattro lettori, che sarebbe una scelta molto piemontese. Ci sono affetti fondamentali e un garbo che difficilmente ho trovato altrove, però dal Piemonte ho avuto veramente bisogno di andare via. È un posto nel quale, generalizzando, si fa un po’ fatica a esprimere i sentimenti in maniera libera e appassionata. I sentimenti hanno tutti una temperatura educata, io invece, forse sono una persona un po’ volgare, voglio dire anche parole brutte purché siano vere, e faticavo a esprimere chi sono rimanendo in quella misura.

La moderazione si sposa malissimo con l’essere attrice, professione che richiede di capire quali sono le tue zone buie, i tuoi limiti: devi diventare veicolo di tantissime facce diverse che magari non c’entrano niente con te, dunque devi conoscerle. Ricordo quando sono andata a Palermo dalla famiglia del padre di mia figlia, con il quale non siamo più insieme però abbiamo un rapporto bellissimo. La mamma, con un sorriso che noi non sappiamo neanche come si fa, ci manca proprio la muscolatura per aprire la bocca fino a quel punto, mi disse: “Come sei solare”. Devo essermi commossa. Qualcuno che riesce a vedere qualcosa che non è evidente! Posso anche dare questa impressione. Bello, no?

Siamo pieni di espressioni in Piemonte del tipo: non mi oso. Le parole ti influenzano, i sentimenti dei piemontesi sono uguali a quelli degli altri però quel linguaggio genera una forma mentis che ti complica la vita su lati che per me sono sinonimi di felicità. Se, anziché chiamarmi, dici che mi hai pensato tanto ma non volevi disturbare, che me ne faccio, anche se è vero? Sto estremizzando, e non mi piace, poi la mia famiglia non è neanche esattamente così. Parlo dell’humus.

Poco fa hai nominato la verità…

Ah, sì?

La cerchi?

Senz’altro. Non da tutti, non per tutti. Intanto, la verità è un fatto soggettivo di un istante. Io sono una puntuale narratrice, non una ritardataria che se ne esce: “Sai che una settimana fa?”. Sono un po’ tagliente, dicono, anche se mi sono affinata negli anni, ma manco tanto. Ho aggiunto giusto un po’ di garbo piemontese.

Siamo in grado di raccontare continuamente versioni alternative di quello che ci accade, a seconda di quello che fa più comodo. Mi sembra che buona parte dei problemi che si affrontano, derivino, salvo enormi traumi, da un impianto narrativo che in qualche modo giustifica il nostro carattere, lo rende condivisibile. Forse mi è capitato di costruire un dolore perché mi era utile, partendo da fatti che avrei potuto leggere diversamente. Vedo l’ostinazione di percorrere una strada, in me e negli altri. Per evitare che questo si incancrenisca dico quello che succede così mi rendo conto della contraddizione: se ieri ho detto sta’ cosa e oggi dico quest’altra, ma può essere mai che sono vere tutte due?

Perdonare diventa una passeggiata, ma ho sviluppato un fastidio epidermico per quelli che mettono la polvere sotto il tappeto e la tirano fuori l’anno successivo: non mi danno la possibilità di entrare nel merito. Dopo un decennio di Non sopravvalutarsi, dal 2021 il mio motto è: Qui e ora. Un po’ più di moda.

A proposito di moda, come va con i lati appariscenti del cinema, passerelle di Cannes e simili?

È sempre tanto bello, per il lato infantile. Faticosissimo. Ci si stressa, io mi stresso, almeno, anche se faccio finta di essere rilassata. Di sera ogni muscolo è dolorante per la tensione. Al festival il mostrarsi è diverso dalla recitazione. Non sono partita leggera, s’era capito? A 21 anni mi trovavano troppo adulta per fare i ruoli della diciannovenne. Non ho mai avuto quella leggerezza, altre magari sì. Quindi non ho mai preso il red carpet con lo spirito del gioco.

L’ansia, il viso tirato, la rigidità interiore, poi si impara che non è così importante e che si può ridere, soprattutto se ti fai un bicchiere di vino. Il red carpet, che non è neanche la parte peggiore, dura in tutto dieci minuti mentre la lavorazione in cui ha dato le viscere è lunga sei mesi. E tu devi andare in angoscia? Non è proprio angoscia: è come quando è la tua festa però, porca miseria, l’hai organizzata tu e devi controllare le polpette. Il festival non è l’aspetto più intrigante del lavoro, ma solo uno di quelli che si vedono e, in questa fase storica, pare che ci sia soltanto questo.

I lati intriganti?

Sono tanti.

Uno o due. Oppure: perché hai voluto fare l’attrice?

Non so, probabilmente c’entrerà mio padre. C’entra sempre. Non voglio rispondere quello che rispondo di solito. Ce l’avrò una risposta migliore, no? Potrei rispondere da qua fino a Natale, comunque, quindi sarà una mini porzione di un ragionamento. C’è qualcosa che è auspicabile succeda in scena. Spesso non succede, ma comunque si rincorre: è un anelito, una spinta.

Siccome noi rappresentiamo sintesi significative di vite, ci sono dei momenti in cui sei come vorresti essere nella vita: in controllo e libero insieme. Poi: se io riesco a recitare un personaggio è perché dentro di me c’è. Non sono un camaleonte perciò attivo una personalità che non avevo vista anche se magari qualcuno potrebbe dire: la conosco benissimo. Che ne so: uccido qualcuno e non vado in galera. Addirittura riesco a farmi fare un applauso, mi pagano. E c’è persino il rischio di farne un’arte.

L’unica ragione per non sceglierlo, allora, è la mancanza di talento?

Secondo me, per diventare inutilmente pedagogici, sarebbe giusto che i ragazzini facessero questa prova. Ti crea altri problemi, ma apre delle zone, e sei obbligato ad accettarti un po’ più facilmente.

Film in uscita?

No, in realtà. Da poco è uscito Il Boemo che è un bel film su un compositore ceco, prodotto da Italia, Francia e Repubblica Ceca. Siamo andati al Festival di San Sebastián a settembre, ha vinto un bel po’ di premi ed era il candidato all’Oscar della Repubblica Ceca che, però, è piccola.

Chi interpreti?

Una marchesa settecentesca, una nave scuola, che porta costumi pazzeschi. Ho adorato! Farei uno spin off con la marchesa. Molto bravo il regista Petr Václav, molto bravi tutti. Gli attori sono italiani tranne il protagonista Vojtech Dyk che è, appunto, boemo. Sarebbe da vedere sul grande schermo.

Più avanti uscirà un’opera prima di Francesco Frangipane, direttore artistico del teatro Argot, che s’intitola Dall’alto di una fredda torre, adattamento cinematografico di una drammaturgia di Filippo Gili, con Vanessa Scalera, Edoardo Pesce, la Bonaiuto, Giorgio Colangeli. Faccio un medico. Un film strano, interessante, su un grosso dilemma.

Per il resto, sto solo registrando degli audiolibri, sono in un momento di riflessione: quello dell’attore è un lavoro curioso. Da una parte scegli di essere scelto, ha molto a che vedere con il desiderio di essere visti, essere riconosciuti, dall’altra è inquietante. Tutti vogliamo essere visti, riconosciuti e amati per come siamo. Però l’attore ancora un po’ di più e il regista è in grado di vedere, oltre un immaginario basico, il tuo potenziale e di dirti: “Guarda che tu puoi andare fin là. Ora ti spiego come si fa”. A me serve, essendo competitiva.

Ci mancava.

È inutile negarlo, competitiva con me stessa. Se mi chiedi di più io sono ben contenta. Ti voglio far vedere che là ci arrivo. Non mi appaga essere appagante. Parlo del lavoro. Sono in attesa. Bell’amico, l’imprevisto.