La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no.

(Louis Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

Un uomo, con basette lunghe, fissa il cruscotto della sua auto, nel traffico. Una signora, troppo coperta, per i 25 gradi di questo aprile, percorre a passo svelto la strada in discesa. Le begonie cercano un dove sul terrazzo. Troppo sole. Troppa ombra. Troppo sud.

Dal basso, come dalla cucina orientale, sita al pian terreno dell’edificio dove alloggiavo a Köln, arrivano zaffate ma, di odore di residenza per anziani, di malattia, di pasti, di pannoloni e di bucato, odore di mio padre che si è perso. L’uomo scheletrico, appoggiato sulla montagna di cuscini, sulla sedia a rotelle che reca il cartellino col suo cognome, è solo, nuovo e vecchio. Fiori di gerani bianchi, sbocciati da poco, perdono tracce viola verso il margine del petalo immacolato.

Mi sono persa anch’io. Negli ultimi sette anni eravamo cambiati. Non mi arrabbiavo con lui. Gli atteggiamenti che avevo trovato insopportabili non erano un modo di combattere ma, di raccontarsi. Eccola che arriva, con fili di grano che cascano a onde di grappoli dalla testa, con la pelle morbida, pallida, con gli occhi di foglia e sopracciglia piene, e di nuovo, m’incanta, perché spontaneamente si avvicina e quel grano oscilla, si muove e si mostra. Un po’ goffa, quando balla senza sapere bene ancora come disporre il suo corpo vergine in uno spazio saturo e occupato. Da quando è fuori, mi manca. Mi manca la certezza che quando è qui, non è in un altrove che non conosco.

Le api amano la malvarosa. Aspettano tre stagioni per una ventina di fiori. È più facile per quei rami lì. Spinti dal vento, scaldati dal sole, beccati dal corvo, colonizzati da insetti, vinti o vincitori. Le farfalle che passano sono quasi sempre piccole e grigie, come falene. Niente colori brillanti ad attirare uccelli. Forse conveniva nascere farfalla grigia. Per conto mio, senza tanti arrovellamenti. Se una decina di giorni sono pochi, lo sono anche cento anni. E allora sprofondo. Ho poco tempo a disposizione. Forse dovrei solo guardare il cielo e essere spensierata ma, mio padre è morto.

Muori perché una notte ti portano al pronto soccorso per un addome acuto, e invece, sorpresa, hai un enorme tumore alla vescica, così grande che il chirurgo lo guarda, ti guarda - tu con la tua vascolopatia, le mani tremanti che ancora stringono tra dita di unghie gialle una sigaretta immaginaria che ancora porti alla bocca, la cui cenere ci chiedi ancora di raccogliere – e richiude. Sei troppo debole, pesi così poco. Tu, il principe del foro, il polemico, che ora sembra un bambino che non ha perso il suo piglio, ma è indifeso. Tu che non ricordi nulla ma, reciti il conte Ugolino, che resti elegante anche smunto, anche se di te resta un alito. Ti chiamano di notte. La lasci a casa, lei. Dove vuoi portarla, con quei boccoli biondi. È molto tardi. La guardi e speri che non si svegli e ti cerchi. Serve la firma di un familiare. Aspetti che si aprano le porte. É stato un intervento esplorativo perché, quando il giovane medico esce, ti comunica che parlerà con un urologo ma, le condizioni cliniche sono scadute e non c’è più nulla da fare. Usa le mani per aiutarti a capire le dimensioni del tumore e ti chiedi come possa quel corpo ormai rachitico, ospitare qualcosa di così ingombrante, ma è così. Devi solo aspettare.

Lui ha i capelli bianchi, increspati sui lati. Lei una vestaglia rosa. Sono le dieci del mattino. Lei sale sullo scaletto per le pulizie, lui si appoggia alla porta del balcone, mentre vigila e guarda fuori distratto. Lei assume posizioni imprudenti e scende. Il lunedì dopo la domenica di Pasqua, sembrano soli. Dalla mia visuale li vedo sbirciare i vicini, commentare, come se la vita fuori offrisse vita dentro. Chissà come passa il loro tempo. Lei sale di nuovo sullo scaletto. Il colletto della polo di lui ha gli spigoli ritratti, come orecchiette di un libro troppo letto. Una volta li ho incontrati alla fermata. Ora li noto e penso che quando non vedo, loro mi guardano. Gli oggetti della casa, lo specchio ovale, lo stenditoio vuoto in una giornata nuvolosa, la sedia da spiaggia imballata e gialla, sul fianco, nell’angolo della piccola balconata. Sposta lo scaletto. Vedo solo le gambe del pigiama e lembi della vestaglia rosa e le scarpe nere che piegano la stoffa in grinze. Solleva una gamba e resta in bilico. Vedo solo dalla cintura in giù. Il resto è coperto dalla persiana verde abbassata. Lui mantiene la scala e la tenda bianca oscilla. Prosegue lui con gesti energici, si flette e si rimette ritto. Hanno cambiato stanza. Ora il balcone è vuoto, semiaperto. Battibeccano, poco, a dire il vero. Si saranno già detti tutto, negli anni insieme. Si vede lei in lontananza riempire la stanza.

Ci deve essere stata una brutta pioggia. Violenta. Durante la notte. Una pioggia di qualche tempo fa. Una pioggia invernale. Una pioggia alla quale non ho assistito. L’albero di campane gialle che lancia odore d’estate e ci fa sentire tutti in vacanza ha le foglie bucate. Col dito muovo la girandola che qualche animatore le ha regalato alla fine di una festa. Il legnetto è annerito. La girandola non gira. Col dito la spingo un po’. Si muove a stento. Una lucertola è venuta a farmi visita e al mio sobbalzo è corsa via, passando una mano di verde sulla parete grigia. Mi sporco le mani di terreno, analizzo ciottoli, cerco parassiti, mi perdo e mi ritrovo. Il bambù della balconata è sporco come il legnetto della girandola che non gira, conficcata nel terreno dei gerani. Un insetto si è poggiato sullo schermo del tablet. Chissà come si difende lui. Io non so farlo bene. Mi dà fastidio il calzino, la scarpa, la camicia, la cucitura all’ascella, mi dà fastidio la pelle e il vento che ora soffia e per la prima volta mi rendo conto che, la girandola gira. Perché le cose succedono, quando non guardiamo, mentre siamo distratti. Nel tuo corpo si diffonde un cancro, perché per quanto banale sia, la vita, quella dalla quale non dovremmo poter essere in grado di distrarci, ce la dimentichiamo mentre scorre e ce la ricordiamo quando fugge via. Fisso la pianta con le foglie palmate e noto che si sta aprendo, lentamente. È minuscola e sembra la mano di un neonato attaccata al tronco come in un abbraccio. Ho piantato dei semi di limone. Guardo il terreno, con il dito gratto la superficie in cerca di una traccia di germoglio. Gioco con la girandola e la agito fingendo che ci sia vento. Tanto lei non lo sa e si divertirà a fare il suo mestiere.