L'opera pittorica di Cesare Sofianopulo (1889-1968) è gremita di travestimenti, duplicazioni, imposture, metamorfosi e scarti di ogni tipo, ma nessun altro dipinto riesce straniante e stralunato come Maschere, realizzato nel 1930 e attualmente esposto al Museo Revoltella di Trieste. Attraverso colori particolarmente sgargianti che si scostano dalle tonalità cupe che gli sono solite, Sofianopulo quintuplica la propria immagine all’interno della tela, ritraendo se stesso in fogge ed espressioni variegate.

In basso a sinistra è un demonio: costume rosso fuoco che lascia scoperto soltanto un volto ghignante e corrugato, e che cela invece due brevi corna e due grosse orecchie a punta; sulle spalle, a completare la più carnevalesca tra le raffigurazioni del Maligno, l’immancabile mantello nero; l’indice sinistro è puntato verso il cielo, come già il destro del San Giovanni di Leonardo, mentre l’altra mano regge una coppa.

In alto a sinistra diventa un dandy: viso altezzoso, monocolo, cilindro e giacca neri, spezzati da una camicia inappuntabilmente bianca, con tanto di colletto inamidato, papillon, fiore all’occhiello e guanti, tutti dell’identico colore.

In alto a destra è nei panni di un cesare, come conferma il cartiglio arrotolato che tiene in una mano: di profilo, con addosso un abito a metà fra un pallium e una toga, guarda imperscrutabilmente il lato opposto.

In basso a destra si è trasformato in monaco: la faccia liscia, distesa, contrasta fortemente con quella della versione diabolica; lo sguardo è tuttavia sornione e punta in modo obliquo verso la figura del dandy, dal basso verso l’alto; ha le mani giunte sul petto, appoggiate al saio, mentre in testa porta una tonsura ridicola e posticcia al di sopra della quale piove una manciata di coriandoli.

Al centro, infine, Sofianopulo fa di sé un pagliaccio orripilante che scruta con severità l’osservatore: la mano sinistra è appoggiata alla coppa di cui sopra, mentre l’altra è sull'avambraccio del suo satanico gemello; abito e gorgiera, vaporosi, tendono all’azzurro-acquamarina; la faccia, che vi appare quasi incastonata in mezzo, è cosparsa di cerone e sul suo pallido fondale spiccano la bocca vermiglia e smisurata, coi bordi all’insù, e il contorno nero degli occhi a forma di stella a quattro punte; sul capo domina un parruccone verdognolo slavato, tricorne, i cui vertici mirano agli interstizi liberi tra le figure che vi stanno intorno. Quest'ultima non è l’unica simmetria esibita dall’artista, giacché le quintuplici declinazioni del suo ego formano una «M» assai precisa, e mani, sguardi e piegamenti recano tutti un gioco di incastri studiatamente esatto, tanto da spiccare sullo sfondo informe dominato dalla calca ballerina di una festa in maschera.

Un unico dettaglio sembrerebbe ostacolare questa corrispondenza di forme e di posture: sul lato sinistro, sopra le spalle dell’artista-diavolo, appare sgraziatamente inopportuna la morte, nell’atto di togliere o indossare una maschera che ne palesi o mimetizzi i tratti. Su quale sia il valore di questa vera e propria intromissione ci si potrebbe scapricciare a piacimento, ma è Sofianopulo stesso che ci ha lasciato una precisa testimonianza a riguardo: «Il mio surrealismo ante litteram? Nessun ismo. Questo era già allora il mio sentimento: un triste sorriso sulla bellezza e la felicità della vita, sorriso che doveva nascondere dolore. Due anni prima, il 2 febbraio, martedì grasso, mentre il carnevale pazzeggiava per le strade della città, di sera, a cena, morì mio padre […]. Ecco perché nel mio quadro Maschere […] c'è anche la Morte, che si toglie il volto, come l'unica che può veramente sorridere» 1.

Una fascinosa variante del classico memento mori, quindi, come a dire che pur nella proliferazione dei sembianti, in fondo alle svariate maschere di ognuno, c’è sempre il medesimo ineluttabile destino.

Note

1 Articolo apparso su Il Piccolo, 17-12-1963.