Nel pensiero indiano, l’uomo attraversa quattro fasi nella vita, chiamate āshrama आश्रम: studente, sposo e padre, eremita, rinunciante. Ciascuna fase è definita da una o più compiti, e da un diverso carico di responsabilità. Il primo āshrama è propedeutico a tutti gli altri. Prima di essere sposo e padre, eremita o rinunciante, è necessario essere uno studente. Così come, prima di accostarsi alla morte, è necessario avere vissuto.

Il destino, o la volontà di Dio, mi ha condotto a un’esperienza umana difficile e bellissima dopo una lunga fase di apprendistato. Come famiglia inter-nazionale, inter-razziale, inter-culturale, inter-religiosa, siamo continuamente impegnati ad attraversare un territorio inesplorato, cercando di equilibrare il peso delle nostre culture e la visione dei nostri orizzonti. Sforzandoci di tracciare una rotta comune sotto stelle sconosciute.

L’arrivo di un figlio o di una figlia in coppie come la nostra sbilancia e rimette in gioco molte cose. In un certo senso, le identità si moltiplicano: non si è più solo sposi, si è anche genitori. E come genitori, si è chiamati a una delle avventure più entusiasmanti: trovare il modo di tradurre la meraviglia del mondo e la complessità dell’esistenza in termini che un bambino possa comprendere. Aiutare un bambino o una bambina a incontrare quella meraviglia e quella complessità, e a misurarsi con esse. In una parola: educare.

All’interprete attento, le corrispondenze fra il generale e il particolare, fra l’orizzonte dell’esperienza del bambino e quello del mondo che lo si prepara a conoscere, diventano presto evidenti. Uno dei più celebri insegnamenti della tradizione ermetica afferma: “Ὡς τὸ ἄνω, οὕτω τὸ κάτω. ὡς τὸ κάτω, οὕτω τὸ ἄνω Os tó áno, oúto tó káto. os tó káto, oúto tó áno”, “come è sopra, così è sotto. Come è sotto, così è sopra”. Un insegnamento molto simile al più conosciuto “ὡς ἐν οὐρανῷ, οὕτω καὶ ἐπὶ τῆς γῆς os en ouranó, oúto kaí epí tís gís”, “come in Cielo, così in Terra”, che si trova nel Padre Nostro (Mat. 6:10). Parte della difficoltà di essere genitori è riconciliare ciò che dovrebbe essere con ciò che è, l’ideale con il concreto, e il potenziale con l’effettivo. A maggior ragione quando il papà e la mamma appartengono a culture diverse, e hanno dunque presupposti pedagogici ed etici diversi.

Come maestro e come genitore, la mia esperienza mi suggerisce che ci sono due espressioni fondamentali nell’educazione: “ti voglio bene” e “no”. È possibile che questa riflessione nasca in parte dal periodo che ho trascorso nel monastero Sōtō Zen di Fudenji, sulle colline parmensi. Il maestro Taiten Guareschi, prendendo spunto dall’episodio di Re Salomone e delle due prostitute (Re, 3:16), fece questa affermazione: “L’amore perdona tutto. La giustizia non perdona nulla. L’etica è il punto di incontro fra l’amore e la giustizia”.

Se possiamo prendere a prestito l’argomentazione ermetica e affermare che l’essere umano è un microcosmo, “ti voglio bene” risuona dentro di esso come la radiazione di fondo nell’Universo fisico. È l’eco di ciò che ha portato quel microcosmo in essere. Il suono del volontario atto d’amore che risulta nella nascita di un bambino. Credo che ogni essere umano porga continuamente l’orecchio dentro di sé per ascoltare quel “ti voglio bene”, udirlo affermare che la sua esistenza non è frutto del caso, e ricordargli di essere stato voluto, cresciuto, sostenuto, e continuamente amato.

Tuttavia, “ti voglio bene” di per sé non è sufficiente. Ciò che esiste, qualsiasi cosa esso sia, esiste in accordo con delle leggi. Esse possono essere di carattere fisico, chimico, matematico, perfino grammaticale. L’esistenza presuppone una struttura. Quando la struttura si dissolve, l’esistenza viene meno. Ecco allora che crescere un bambino circondandolo unicamente di “ti voglio bene”, se non è controbilanciato dalla presenza del “no”, ottiene il risultato opposto.

Il “no” non è cattiveria o malvagità. È ciò che permette di distinguere “questo” da “quello”, una cosa da un’altra, un comportamento da un altro, un tempo da un altro. È l’informazione essenziale sulla quale il bambino fonda la propria interpretazione della realtà. Per farlo deve venire a patti con la frustrazione di non poter ottenere un “sì” per ogni singola richiesta. Qui, per ogni genitore che sa cosa significa affrontare la tristezza o la sofferenza dei propri figli, vale la pena tenere a mente ciò che diceva Gianni Rodari: “Quanto pesa una lacrima? Dipende. La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la Terra”.

L’interpretazione della realtà, o il modo in cui il bambino costruisce la realtà a livello concettuale, deve essere non solo “possibile”, ma anche “valida”. Con buona pace di Derrida e post-modernisti vari, forse è possibile destrutturare e decomporre un testo, e pretendere di poterlo leggere da qualunque angolazione si voglia e ottenere risultati tutti egualmente validi, ma con l’essere umano questo approccio è semplicemente indifendibile. Con l’essere umano non è possibile limitarsi alla generica accettazione di qualsiasi cosa, qualunque comportamento, ogni scelta quale che essa sia. È necessario insegnare, o se non si vuole usare questa parola, guidare verso la scoperta, accompagnare verso la consapevolezza, delle scelte che sono valide in quello che per Piaget era il “gioco” di se stesso insieme agli altri. Anche se il “no” costa fatica, e costanza.

Per essere un “no” educativo, cioè per essere un “no” scaturito dall’amore, non è sufficiente che la parola esca dalla bocca del papà e della mamma. Al pari del “ti voglio bene,” il “no” deve essere attuato nel loro esempio e dimostrato nelle loro azioni. Parafrasando Giovanni 1,14, è necessario che il logos del papà e della mamma si incarni nella loro testimonianza quotidiana e “abiti” nella famiglia. Se le parole e le azioni sono in contraddizione, il messaggio rimane, a tutti gli effetti, lettera morta.

È un compito lungo e difficile. Richiede di essere svolto in due, e non tanto per una questione pratica, pur essendo anche questo un fattore importante, quanto per il fine dell’educazione in sé. Nella relazione del papà e della mamma attraverso i ritmi e gli imprevisti del quotidiano, nella testimonianza dell’amore dell’uno per l’altra, i bambini vedono il riflesso di come si comporteranno in futuro nei confronti del proprio amato o della propria amata. Non c’è cosa abbastanza banale da sfuggire all’attenzione dei bambini. Da chi lava i piatti a come ci si affronta quando si discute, come si prendono le decisioni, come si dimostra affetto, come si cerca e si riceve aiuto.

La differenza culturale, linguistica, religiosa, è contemporaneamente complessità e opportunità. All’interno del presupposto fondamentale dell’amore manifestato dal “ti voglio bene” e circoscritto dal limite del “no”, i bambini si fanno strada poco per volta attraverso modi di concepire la realtà e l’esistenza che sono talvolta molto simili, talaltra inconciliabili. Scoprono che questo non pregiudica la possibilità di vivere insieme, negoziando passo dopo passo un’identità che congiunge, invece di separare, un estremo e l’altro dell’esperienza umana.