Due donne e il veleno, questa la sintesi dei curiosi racconti misti tra storia e leggenda che hanno reso celebri le serial killer Giulia Tofana e Giovanna Bonanno.

Prendono luogo nell’antica Palermo, sebbene in epoche ben lontane, le storie fatte di mistero e macabro della famosa acqua tofana e della vecchia dell’aceto, racconti di scellerata follia spacciata per aiuto misericordioso.

A loro vengono addebitati misteriosi delitti e premature scomparse apparentemente inspiegabili, molte di queste (la quasi totalità) ebbero come protagonisti gli sfortunati malcapitati mariti, le cui spose per disfarsene e per vendicarsi di qualche torto ricevuto facevano ricorso agli intrugli e ai malefici dispensati dalle fattucchiere di Palermo.

Veleni senza traccia mietevano vittime in città lasciando numerosi sospetti; un grande malessere, un malore improvviso e poi la triste morte sopraggiungeva. Nulli i tentativi di cure messi in atto dai medici, i quali data la mancanza di segni di avvelenamento e le ancora poco evolute conoscenze mediche, non riuscivano a decretare le cause del decesso.

Giulia e l’acqua tofana

Si deve a un’astuta cortigiana ai servigi di Filippo IV di Spagna e sapiente donna d’affari l’esistenza della tanto raccontata acqua tofana, la miscela mortale che fece tremare gli uomini della Palermo del 1600.

Né odore né sapore, questo il grande vantaggio per chi decideva di farne uso, grazie a un passa parola tra le vie del centro o tra i banchi del pesce di Ballarò e del Capo, dove le donne si passavano le informazioni su come reperire la soluzione ai loro problemi. Una miscela di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio venduta in piccole boccette di vetro, la dose sufficiente per assicurare un buon risultato.

Secondo diversi racconti Giulia era una donna molto colta e attraente, una vera donna d’affari che riusciva con la sua maestria a vendere con molta semplicità il composto a chi aveva bisogno di risolvere problemi altrimenti irrisolvibili con mariti, parenti, inimicizie e amanti di cui disfarsi.

Sarebbero bastate quelle poche gocce all’interno di una qualsiasi vivanda e attendere l’arrivo di un medico per accertarne la morte. Ecco che con questo veleno molte donne nel ’600 rivendicavano la propria libertà dai matrimoni imposti in tenera età, unioni infelici tra persone incompatibili dove la donna era soggetta spesso e volentieri a vessazioni, violenza domestica e completa sottomissione al marito.

Giulia Tofana sarebbe stata la figlia o nipote della già ben nota Thofania D’Adamo, una criminale già giustiziata a Palermo per la morte del marito nel 1633, da questa ipotetica parentela potrebbe spiegarsi la sua conoscenza nell’utilizzo dei veleni. Nella sua fruttuosa e macabra attività Giulia coinvolse inoltre la figlia Girolama Spana.

Il veleno sembra essere stato diffuso inoltre anche a Perugia e Napoli dove l’acqua tofana sembra aver riscosso molto interesse. Dopo anni indisturbati, la morte del marito di una nobile cliente, la Contessa di Ceri, desta non poche perplessità.

Quest’ultima avvelenò il marito utilizzando l’intera boccetta di veleno, così facendo smosse i sospetti dei parenti. Le indagini e i numerosi dubbi sul decesso portarono a Giulia Tofana, questo ne conseguì la carcerazione della stessa, che sotto tortura ammise di aver venduto il composto soprattutto nella Capitale durante la peste, tra il 1633 e il 1651.

Poco più avanti però le tracce di questo personaggio curioso quanto affascinante si persero, i racconti narrano di una morte naturale sopraggiunta con l’età, altri pensano sia stata rinchiusa in prigione o in monastero ad espiare le sue colpe.

A continuare la prosperosa attività dopo la morte della madre fu la figlia Girolama che invece fu arrestata insieme ad altre complici, tra queste: Giovanna de Grandis, Maria Spinola, Laura Crispoldi e Graziosa Farina processate a Roma a Campo de Fiori, impiccate nel 1659.

La vecchia dell’aceto

Si racconta ancora oggi che tra le vie di Palermo si aggiri il fantasma della vecchia dell’aceto, proprio lì tra i Quattro Canti e l’antico Cassaro, dove chi era accusato di stregoneria veniva impiccato dinanzi all’intera città.

Questa storia inizia in realtà nel quartiere della Zisa, dove Giovanna Bonanno, all’anagrafe Anna Pantò, moglie di Vincenzo Bonanno, viveva come una mendicante, negli anni del Viceré Domenico Caracciolo.

Non si definiva un’assassina ma la paladina delle donne maltrattate, convinta di rendere un servizio utile alle donne non felicemente sposate.

Il suo nome nella storia di questa triste vicenda gli verrà cambiato a causa di un errore nella trascrizione negli atti di processo, in cui venne imputata per stregoneria e per aver cagionato la morte a diverse persone attraverso la vendita del suo siero mortale.

Le vicende hanno luogo a Palermo nel XVIII secolo, cento anni dopo l’esistenza di Giulia Tofana. Durante il regno del Viceré Caracciolo, a disseminare la paura in città è a insaputa di tutti la mendicante Giovanna Bonanno, la donna che verrà conosciuta da lì in avanti come la "vecchia di l'acitu”, che nel quartiere già tutti chiamavano "a magara", ovvero la strega.

Tutto ebbe inizio da un caso fortuito, un giorno si accorse che l'aceto per pidocchi, una miscela di aceto e arsenico, aveva causato un grave malore ad una bambina che, per errore, ne aveva bevuto un sorso.

Giovanna, capendo quanto quel liquido così facilmente reperibile fosse in realtà altrettanto pericoloso, ne acquistò una boccetta presso la bottega di un aromataio e ne somministrò un quantitativo modico a un cane randagio. Poco dopo si accorse che il cane era morto, ma l’animale non presentava alcun segno di avvelenamento, capì così che quella era l'occasione giusta per dare una svolta alla sua vita e iniziò a vendere la miscela mortale alle donne in cerca di libertà.

Dai documenti processuali studiati dall’ etnologo, medico e scrittore Salvatore Salomone Marino, risulta che la Bonanno fosse davvero sentitamente convinta di offrire un servizio a favore di molte donne. Furono anni anche questi di morti improvvise, scomparse premature e inaspettate, di vedove risposate all’indomani del lutto del marito, una serie di vicende che sembravano passare inosservate nel caotico via vai dell’antica Palermo.

Un veleno senza traccia che veniva somministrato alle vittime prescelte da chi ne aveva richiesto una boccetta alla vecchia dell’aceto. Agendo così, nessuno avrebbe mai sospettato un suo possibile collegamento con le morti improvvise che si susseguivano in città. Se non fosse stato per banale errore: Giovanna aveva venduto il veleno ad una donna che, per vendetta la denunciò, destinandola ad essere imprigionata e poi giustiziata mediante impiccagione.

Stregoneria e veneficio, queste le accuse che la destinarono alla pena emessa il 13 aprile 1789, dalla Regia Corte Capitanale di Palermo.

Una forca altissima venne allestita a Piazza Vigliena, gli attuali Quattro Canti, che dividono in fette la città di Palermo, poiché era in uso credere che fosse necessaria una grande altezza per separare l'anima dal corpo ed espiare un reato così grave.

La storia di questo processo colpì molto l’opinione pubblica, alimentando numerose dicerie che nel tempo vennero tramandate fino ai nostri giorni. Di lei scrisse il romanziere siciliano e storiografo Luigi Natoli, che nel 1927 pubblicò il libro intitolato La vecchia dell’aceto. Ad oggi un mezzo busto raffigurante Giovanna Bonanno viene custodito nel Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè, a ricordo di uno dei personaggi più contorti e tenebrosi della Palermo del ’700.