Per la benemerita serie Sound & Pictures, licenziata dalla Red Records di Marco Pennisi, è stato appena pubblicato il terzo volume dedicato a una retrospettiva delle immagini più significative di Roberto Polillo, milanese e fra i grandi testimoni di un’epoca irripetibile per la Musica Jazz. Con questa nuova opera, dagli esiti a dir poco entusiasmanti, la coraggiosa etichetta italiana si pone sempre più al centro di un’operazione che non ha riscontri nel panorama mondiale: accanto al suo corposo catalogo sonoro (che di recente ha messo in evidenza alcuni inediti o session integrali di Maestri del calibro di Chet Baker, Cedar Walton, Kenny Barron ed Hank Jones fra molti altri), ecco una collana fotografica in sviluppo progressivo, che dopo Mirko Boscolo ed Elena Carminati, pone adesso l’obiettivo su Polillo, figlio d’arte (il padre Arrigo è stato senza ombra di dubbio il progenitore imprescindibile della cultura jazzistica in Italia), ed interprete di un estetica particolarmente originale e duttile, anche nel prosieguo della sua attività in cui poi ha prediletto altre tematiche.

«Quando Marco Pennisi mi ha proposto di realizzare un libro per questa pregevole collana» ribadisce con la sua consueta disponibilità «sono rimasto affascinato dalle possibilità offerte dal suo grande formato quadrato. E allora ho pensato di fare qualcosa di diverso dal solito: ho scelto 29 musicisti fra grandissimi nomi del jazz degli anni '60 e '70 e dedicato a ciascuno una doppia pagina. Una o due immagini a testa, o fuori testo nella doppia pagina, o quadrate. Sono molto contento del risultato, che è molto spettacolare, anche perché il fascicolo è stampato benissimo in digitale».

Immagino il fuoco di fila a cui eri esposto durante il giorno a casa con tuo padre che, oltre a fare il suo lavoro, ti ha pure coinvolto nella tua prima adolescenza in questa inesauribile passione... non è mai semplice parlare di un genitore, specie quando ha lasciato il segno come ha fatto lui, qual è stato il suo più grande insegnamento?

Io sono proprio nato in mezzo a questa musica. Quando mio padre tornava dall'ufficio (faceva il dirigente della Mondadori), accendeva il giradischi e incominciava a lavorare ai suoi articoli per Musica Jazz o per altre testate. La casa era sempre piena di musica ad altissimo volume. Mi ha trasmesso l'amore per la fotografia e per l'arte in generale. Mio padre era un ottimo disegnatore, faceva caricature e ritratti, un ottimo scultore (faceva busti con la creta, che poi faceva produrre in bronzo, in gesso o in creta), e si era anche cimentato con la pittura ad olio. Poi era un appassionato di architettura romanica e gotica, e durante le vacanze ci portava a visitare l'Italia e i Paesi vicini. A me è rimasto soprattutto l'amore per la pittura e per la fotografia.

Chi è stato il tuo soggetto preferito e per quale motivo? Oggi alla parola jazz che significato affidi considerando che hai vissuto un periodo abbastanza lungo in cui ti sei occupato d’altro?

L'ultimo concerto di jazz che ho fotografato è stato nel 1977. Poi mi sono occupato di informatica, e sono tornato alla fotografia solo nel 2003, quando ho avuto più tempo libero. L'imprinting l’ho avuto dal quartetto di John Coltrane, che ho fotografato nel 1962, 1963 e 1967. Quello del 1962 è stato in pratica il primo concerto che ho fotografato, e per me la parola jazz ha sempre evocato la musica di Coltrane, che ha influenzato enormemente tutto quanto è stato suonato negli anni '60.

Approfondiamo la tua evoluzione nel linguaggio fotografico con tanto di maestri ed ispirazioni...

Dopo qualche tempo, in cui ho fotografato artisti di strada e street-art, mi sono dedicato alla fotografia di viaggio - io sono sempre stato un appassionato viaggiatore, soprattutto in Paesi lontani. Ma con un linguaggio molto particolare, non faccio foto documentarie o turistiche, mi interessa catturare le atmosfere dei luoghi che mi affascinano, in un certo senso lo spiritus loci. È nato un unico grande progetto, che ho chiamato Impressions of the world, che mi ha portato, finora, in più di 25 Paesi. In realtà queste impressioni dal mondo non sono state ispirate da fotografi, ma dalla pittura: inizialmente, quella dei pittori orientalisti dell'800. La tecnica che utilizzo - quella del "mosso" - poi è arrivata per caso: un errore di settaggio con la mia prima macchina digitale, che non conoscevo ancora. Ero in Marocco, nel 2005, e da allora ho sempre esplorato questo linguaggio.

Quali sono le caratteristiche che sono sopravvissute al tuo modo di concepire l'immagine nel trapasso dall'analogico al digitale?

Le Impressions of the world le ho sempre realizzate in digitale, e sono completamente diverse da tutto quanto avevo fatto in gioventù. Il jazz - ovviamente - era solo analogico. Quando ho ripreso in mano il mio archivio del jazz, negli anni 2000, all'inizio ho realizzato delle mostre con stampe analogiche. Poi, a partire dal 2017, ho realizzato una collezione di Jazz Icons in digitale. Qui ho imparato a curare moltissimo la valorizzazione dei negativi originali, vecchi di più di 50 anni e anche piuttosto disastrati: macchie, graffi, ecc. Ho usato delle scansioni al tamburo, fatte da un laboratorio di Firenze (Center Chrome), post-produzioni molto accurate con Photoshop, con l’aiuto di Marianna Santoni, stampe fine-art con Roberto Bernè.

Sei uno che scatta molto prima di arrivare alla scelta finale? In qualche modo te la prefiguri prima di realizzarla nel concreto o aspetti che succeda qualcosa che cattura la tua attenzione?

Le foto di jazz e di viaggi sono realizzate in contesti completamente diversi. Per quanto riguarda le foto di jazz, il fotografo deve cogliere l'occasione, che si presenta o in teatro o all'aperto (io non ho mai realizzato foto in studio), e non c'è tempo per i preparativi. Per le mie foto di viaggio, invece, il tempo ci sarebbe, ma io non lo sfrutto. Non pianifico i miei scatti, né per quanto riguarda i soggetti né per quanto riguarda il momento della giornata, per sfruttare le diverse condizioni di luce. Vado in giro “col naso all’insù” e fotografo tutto ciò che cattura la mia attenzione. Il particolare linguaggio che utilizzo consiste nel muovere la fotocamera durante lo scatto con tempi lunghi, quindi non è possibile tenere bene sotto controllo l'immagine finale. Allora bisogna scattare molto, anche 10, 20, 50 scatti per ogni immagine, spesso a raffica. Questo poi impone un grandissimo lavoro di selezione ex-post.

Ma nella fotografia moderna la possibilità di scegliere è un limite o piuttosto un'opportunità?

Nel mio caso non solo è una opportunità, ma è un prerequisito indispensabile. Però non riesco a immaginare un tipo di fotografia in cui la possibilità di scegliere possa essere considerata un limite.

Sfogli con maggiore piacere un libro di fotografia oppure un vinile nuovo di zecca?

I libri di fotografia, anche perché non possiedo più giradischi né vinili. Tutti i vinili di mio padre sono stati donati, molti anni fa, all'Accademia del Jazz di Siena, che hanno costituito la base per il Centro Nazionale Studi sul Jazz “Arrigo Polillo”, che ha poi raccolto decine di altre donazioni.

Stai già preparando qualcosa di altro per i prossimi mesi?

Per il momento mi sto dedicando a un mio nuovo progetto, molto impegnativo, che non è fotografico. Sto facendo restaurare un vecchio edificio industriale vicino al Naviglio Grande, a Milano, per farne un centro culturale dedicato, fra le altre cose, alla fotografia e alla musica. Sui temi della diversità delle culture, dove è evidenziata ancora una volta la mia passione per i viaggi, e del futuro. Sarà pronto all’inizio del 2024 e mi sta impegnando molto, quindi per il momento non ho mostre fotografiche a tempi brevi. Ma ho una proposta in corso sul tema delle città del futuro e, naturalmente, non rinuncio ai miei viaggi fotografici. A dicembre invece andrò a Istanbul, una città che conosco ma che non ho mai fotografato.