Esplorarsi e rileggersi senza pregiudizi, rimane il migliore metodo di autoanalisi che possediamo. Non c’è nulla di male nel non riconoscersi in quanto scritto in precedenza. È sempre importante chiedersi che cosa unisce la nostra versione presente con quella passata, prossima o remota che sia. Solo identificando il percorso fatto e gli effetti che ha avuto su di noi possiamo sperare di rasserenarci profondamente. Ironicamente, l’unico modo di arrivare alla metà richiede di non guardare sempre avanti.

Osteopata

Ieri, dopo l’incontro in fondazione
e la festa coi bambini
in cui mi hanno dipinto la faccia
risultando in uno strano mix tra Rocky Horror Picture Show
e Coco, mi serviva lo struccante
e mi sono finalmente accorto
che non c’era più
saranno almeno due anni che tu
non passi.

Oggi la scale della metro sembravano
prendermi in giro
con soffi brevi e lunghi
tra un passo e l’altro
e attraversando le strisce
una jeep continuava ad accelerare
ed io quasi mi ci volevo buttare,
certi pensieri non è normale farli
con una certa frequenza, ma non c’è nulla
di preoccupante nella potenziale leggerezza
trovabile nello sparire.

A questo pensavo steso
con la testa nel lettino
dell’osteopata, mentre manipolandomi
ripercorreva tutte le tensioni
muscolari delle mie psicosomatiche giornate
e mi tira fuori suoni e urla
a cui non crederesti
come se i miei non fossero resti
ma spugne ambientali
e gli dico tutto
i rumori degli infiniti reel
notturni, dello statico
per dormire e del metrò
i mormorii della spocchiosa commessa
di Etro che commentava con la collega
mentre guardavo le inabbordabili giacche
arabesche. Davide, non contento preme ancora

“Finché non esce” dice lui “è naturale”
e allora nel supplizio corporale
dipingo con tutta una serie di fremiti
i tuoi, e invento i miei gemiti
che non ho mai fatto
forse dovrei lasciarmi andare
uscire trovare la prima ragazza carina
guardare occhi, tette, occhi
e dirle “hai dei totti bellissimi”

solo a questo riesco a pensare
dovrei soccombere a questo
icore maldestro
maldirezionato, malintenzionato
eppure, anche se ho la faccia dipinta
e non c’è nessuno
la sera è così bella
e da un po’ provo a muovermi
nel jazz e in altre accozzaglie improvvisate
e sono anche io come il cielo
vuoto a tratti
più naturale di così
che vuoi?

Narciso

Amata mia, ho paura
che nonostante la distanza
temporale ed esistenziale
tu mi sia rimasta
incastrata sottopelle.
Non temere, comprendo l’assoluta involontà
reciproca di questo fatto
e lo spoglio da ogni accezione di possesso
eppure è successo
che passeggiando nei boschi alveolari
scendendo a spazzaneve
le piste dalla faringe alla trachea
e scalando la vena cava
dall’inferiore alla superiore
ho trovato pezzi di te.

Capisco il tuo logico dubbio,
ma non sono certo esperto
di cuore, sono unicamente vittima
di questo malumore
che non mi lascia andare
ed è una chimera
a cui presti le fattezze
così storpiate da un ideale
che mi fa nauseare.

Per colpa mia, mi fai venire mal di mare
e non ti devi scusare
ci mancherebbe
che tanto non mi puoi mentire
e ogni traccia che ho trovato
faceva male perché mi poteva capire
in tutti quei modi che tu non sapevi fare
incapace però di quel miracolo
con cui non capendo mi potevi lo stesso amare.

Mi rendo conto dei limiti
di questa situazione
e di come la tua perpetua
e storpiata riproduzione
non mi dia che un freddo simulacro
con cui parlare.

Chissà le farfalle cosa ricordano
della vita tra il fogliame,
vedi, ho paura che una volta impupato
nel mio organico minestrone, io,
non ti trovi più
e potrò così, una volta ricombinato
volare come se non fosse stato,
ma come posso
se mi guardi così
con quegli occhi soli
così uguali ai miei
che infondo sono i miei.

Anche Narciso nel lago
ci è morto
e tu, nonostante tutto
rimani
la mia fiamma fresca.