L’ultimo film di Wim Wenders è un esempio della cinematografia che mi piace davvero. Una storia raccontata senza effetti speciali, senza particolari colpi di scena, senza montaggio frenetico. È uno stile di direzione d’altri tempi. Verrebbe quasi da definirlo, citando Alec Guinness in Star Wars: una nuova speranza, “...elegante. Per tempi più civilizzati”.

Per il pubblico occidentale l’attore protagonista, Yakusho Kōji, è probabilmente un volto poco conosciuto, a meno di averlo visto in Memorie di una Geisha, un film che non raccomanderei neanche al mio peggior nemico, oppure in Thirteen Assassins. In Giappone è una potenza. Per questo vederlo in un film come Perfect Days mi ha sorpreso piacevolmente.

Già nei primissimi anni ’50 Fosco Maraini nel suo Ore Giapponesi aveva elogiato l’abilità degli attori giapponesi, ed è effettivamente così. Per persone poco avvezze a dimostrare apertamente i propri sentimenti in modo plateale, abituate a una comunicazione che passa dal non-detto, che funziona per accenni e allusioni, in una lingua che Leopardi avrebbe probabilmente amato perché fa regolarmente del proprio meglio per essere “vaga e indefinita” , la recitazione è una cosa diversa.

Vedere Perfect Days in traduzione ha i suoi problemi. Ad esempio, non si capisce il rapporto fra il protagonista, Hirayama, e la sorella. In originale, lei lo chiama nii-san 兄さん, “fratello maggiore”, e questo ha due conseguenze: a livello immediato, si specifica il rapporto di parentela fra i due. A livello sociale, si capisce che qualcosa di grave deve essere successo nel passato fra Hirayama e suo padre, perché il figlio maggiore è solitamente quello che porta avanti l’attività di famiglia. Che Hirayama viva in una casetta modesta mentre la sorella minore gira con l’autista, pur non spiegando esattamente cosa è successo, lascia intendere una crisi di proporzioni inaudite.

La stanza semivuota, ordinata di Hirayama, mi ricorda l’inizio della mia vita in Giappone. La mia era più piccola, molto meno ordinata e certamente non così silenziosa, con la metropolitana di superficie che passava a pochi metri dalla mia finestra fino a mezzanotte. Il suo aprire gli occhi al mattino al suono della ramazza dell’anziana che spazza l’ingresso del tempio buddhista vicino a casa sua, è un colpo di genio che contiene il senso profondo del rapporto fra le persone in Giappone. Non sappiamo se lui conosca o meno l’anziana, e non è importante. Quello che importa è che se lei non fosse lì, lui non potrebbe fare quello che fa, perché non riuscirebbe a svegliarsi a quell’ora e in quel modo. Nel buddhismo, questo si chiama engi 縁起, o “origine interdipendente”.

Un altro momento che ho trovato interessante è il dialogo iniziale tra Yamamoto e Hirayama. Il giovane lo vede impegnato nel lavoro e gli dice “non capisco perché ti ci impegni tanto. Si sporcano subito”. Il punto di ciò che fa Hirayama è l’azione, non il suo risultato. Questo richiama un concetto di origine daoista, poi filtrato in una certa misura anche nel pensiero Zen, chiamato mu-i 無為 “non-per”. L’essere umano ha diritto ad agire, non a godere il frutto delle proprie azioni. Fra l’altro, nello Zen le pulizie sono associate alla necessità di fare “pulizia” dentro di sé, per così dire, quindi si può vedere Hirayama come una persona impegnata in un accurato lavoro su di sé.

Tornando all’origine interdipendente, il resto delle interazioni di Hirayama funziona nello stesso modo. Il chiosco dove si ferma a mangiare, con il proprietario che gli diceotsukaresama deshita お疲れさまでした. È un’espressione che è in sé una poesia. C’è l’-o onorifico. C’è il verbo tsukareru, “stancarsi”. C’è il suffisso -sama, “signore”, e il la copula al passato deshita. Si usa per ringraziare qualcuno di essersi “nobilmente stancato”, per così dire. Il locale dove si reca alla sera, con la padrona evidentemente innamorata di lui. I bagni pubblici, dove si toglie di dosso la sporcizia e la tensione della giornata. Il negozio di libri, dove si reca a comprare romanzi e a scambiare due chiacchiere con la padrona. Il fotografo dove fa sviluppare le sue foto in bianco e nero e compra i rullini, quasi senza parlare. Ognuna di queste attività esiste come conseguenza della regolarità con cui Hirayama le visita, e a sua volta Hirayama trae da queste attività un po’ della forza che gli serve. Il sottinteso, oltre a dimostrare di nuovo l’origine interdipendente, è che Tōkyō è piena di altri Hirayama.

Hirayama aiuta un bambino che si è perso a trovare la propria madre, e per tutta risposta questa prima gli pulisce la mano con una salvietta igienizzante, poi lo trascina via senza una parola di ringraziamento. L’ho trovato incredibilmente fastidioso e tristemente vero, il primo segnale di una sceneggiatura davvero accurata. Il bambino però si volta, e Hirayama scambia con lui un “ciao” fatto con la stessa mano.

Nello shintō, la religione autoctona del Giappone, non esiste una dicotomia tra Bene e Male, ma tra puro e impuro. La purezza è legata alla pulizia, e viceversa. Il legame è così profondo che all’interno della parola kirei 綺麗 è impossibile scindere il significato di “bello” da quello di “pulito”.

Hirayama segue una routine ben consolidata, che è ciò che gli permette di vivere a modo suo. L’unico momento in cui lo vediamo seriamente arrabbiato è quando questa routine viene interrotta dalla defezione del suo “compagno” di lavoro. In italiano, Hirayama viene definito come “il mio mentore”. Il giapponese usa invece senpai 先輩, che contiene in sé l’idea di qualcuno che essendo nato prima ha più esperienza in qualcosa, e per questo è degno di rispetto. I giapponesi vengono educati all’esercizio dell’omoiyari 思いやり, che potremmo definire come una sorta di “tatto” verso l’Altro. La risposta di Hirayama alla frase “tanto si sporcano subito” è continuare a pulire, non tanto perché è suo dovere, ma perché sa che di lì a poco qualcuno entrerà nel bagno e lo troverà pulito. Quando Hirayama raccoglie un virgulto di acero e lo invasa, sta dimostrando omoiyari nei confronti della vita racchiusa in quella pianta. Lo stesso fa con sua nipote Niko, quando la accoglie in casa la notte, e con la madre di questi, informandola che la figlia è a casa sua.

Nel corso del dialogo con la nipote, Hirayama dice questa frase: oggi è oggi, domani è domani. È una semplificazione della frase yō ha kyō no kaze, ashita ha ashita no kaze 今日は今日の風、明日は明日の風 “oggi il vento di oggi, domani il vento di domani”. Nel caso di Hirayama, è una raccomandazione a vivere nel presente, perché il presente, nella prospettiva buddhista, è l’unica realtà che esiste.

Nella scena finale, Hirayama “rompe la quarta parete”, guardando direttamente in camera, e lo spettatore vede passargli sul volto una cascata di emozioni. Ho un debole per i film che utilizzano questa tecnica. Hirayama lo spettatore, che lo sta osservando da due ore buone, come a dirgli “hai visto bene? Ecco qua, non ci sono più segreti”. Il suo passato non è ancora chiaro, perché il regista non ci concede la grazia di spiegarci come Hirayama è arrivato alla sua vita attuale, ma il suo presente si rivela per quello che è: la vita che voleva lui, secondo le sue regole, sorretta da un’etica gentile e umana. Una vita che vale la pena di essere vissuta.