La città più desiderata ed acclamata è sicuramente Venezia, e non certo da oggi, momento in cui possiamo affermare il suo essere diventata quasi monofunzionale, cioè destinata quasi interamente al turismo. Quanto appena indicato può portare al suo rapido deperimento ma, auspicando una veloce redenzione, qui ed ora interessa affermare solamente come un piccolissimo centro sia così tanto visitato e chiederci se ci sia ancora qualcosa da scoprire. Le classiche visite a “Rialto bridge” e “San Marco square” sono trite e ritrite, ma la bellezza di questi luoghi va oltre la noia dell'arci visto e rivisto troppe volte.

I musei condividono lo stesso risultato, anche se limitato a studiosi e cultori dell’argomento, ma anche ad un “normale” turista questa incredibile città può dare ancora il brivido della novità. Per consentire di trovare i luoghi, e magari pure di anticiparne o consentirne a distanza la visione sfruttando la rete internet, vengono indicate tra parentesi quadre le coordinate da utilizzare sui navigatori o sugli analoghi portali nel web oppure le applicazioni presenti in tutti gli smartphone.

Passando alla città ed evitando le porzioni più recenti, quelle da cui con ogni probabilità saremmo arrivati e che guarda caso sono differenti dalla città consolidata ma non costituiscono le alternative che cerchiamo, quindi non suscitano alcun interesse, sono semplicemente indecenti.
Che altro dire di piazzale Roma [45.438042, 12.319013] o dell’isola del Tronchetto [45.439991, 12.313151]?

Personalmente scommetterei non tanto sul semplicemente “non noto che se è tale un motivo ci sarà”, ma sul vedere qualcosa di poco conosciuto ma, perché no?, anche di ultra noto ma rivisto utilizzando anche l’“occhio interno”.

Un ruolo fondamentale è perciò quello assunto dalla conoscenza, dal sapere qualcosa prima della visita, durante la quale andremo perciò a cercare, controllare, comprendere ed apprezzare proprio questi aspetti, e non lo faremo con la pancia ma con la mente. Un primo esempio potrebbe essere quello dei “campi”, nome affibbiato a tutti gli slarghi, la piazza è, infatti, solo quella di San Marco. Si chiamano così perché un tempo non vi era la pavimentazione, per cui quando le dimensioni non sono minime, siamo in presenza di un’area che può assumere quella denominazione.

Strano, vero? Una città oggi completamente satura può essere stata in passato diversa, ma certo e in qualche parte della città è ancora così. Se non cerchiamo il bello patinato o siamo interessati a capire in prima persona la natura di Venezia, possiamo recarci dalle parti di Santa Marta [45.432433, 12.317715], qui in alcune parti si respira ancora e si transita sul verde di un tempo!

Anche il disegno della pavimentazione può a volte indicarci come sia avvenuta la trasformazione. Sono le “salizzade”, cioè i percorsi selciati, in cui a volte possiamo notare il percorso centrale omogeneo e le porzioni laterali con le lastre diversamente orientate, perché realizzate posteriormente, fino a prendere completamente il posto del verde.

Possiamo notare molto bene questo fenomeno in Campo Santo Stefano [45.433242, 12.330237], arricchito nel disegno dall’interramento del canale, relativamente recente. Guardiamo anche palazzo Loredan, che costeggia il percorso principale sul lato ovest nella parte più a sud, le due facciate che vediamo sono molto diverse, la più lunga è per lo più intonacata, la più corta è invece interamente rivestita in pietra, facendoci comprendere come sia quest’ultimo il lato principale.

Com’è possibile che il fronte minore, e apparentemente defilato, fosse più importante? Semplice: un tempo qui vi era il canale, per cui si arrivava con la barca, magari in gondola, proprio su questo lato.

Continuando a porre lo sguardo sul “non finito”, possiamo recarci in campo San Giacomo dell’Orio [45.439854, 12.327453], non più al limite della città ma in area urbanizzata, e notare come il campo vero e proprio, e ovviamente pure l’ingresso della omonima chiesa, siano in una ridotta porzione assolutamente periferica rispetto all’articolazione attuale della zona, oggi declassata a “Ruga vecchia [45.440194, 12.327154], cioè una calle, più importante delle altre ma pur sempre solo una calle.

Pure l’edificazione degli altri fabbricati subisce lo stesso fenomeno, infatti, tutti gli edifici sono prossimi ai canali che circondano l’isola, spesso si tratta di unità disposte in allineamento l’una all’altra, sul canale e sulla calletta (cioè il percorso pedonale) perpendicolare al corso d’acqua che, appunto, consente la fruizione di questo da parte di tutti, perché la città nasce e vive sull’acqua. Lo vediamo ancora oggi se dal campo, cioè dalla parte centrale dell’isola, lanciamo lo sguardo verso l’esterno. Quando attraversiamo questa ennesima isola che compone la città ci troviamo in uno spazio di risulta, dovuto all’interruzione nello sviluppo urbano.

Pensiamoci, questa straordinaria città è caratterizzata dalla doppia viabilità, e quella acquea è di gran lunga la più importante, per cui nel tempo sono state elaborate soluzioni che ne consentano l’utilizzo, alla piccola scala, come avviene per le modeste unità di cui si è scritto, ma anche nei palazzi nobili, caratterizzati dalla sala passante, che di nuovo connette acqua e terra, ripetendo lo stesso schema a scala diversa: canale versus calle (o campo) oppure canale versus giardino. In un certo senso, il palazzo veneziano è davvero un pezzo di città (o una minuscola città)!

Altro aspetto da comprendere, qui particolarmente visibile e percepibile, è come la città nasca dall’acqua, non solo in senso fisico ma anche funzionale e quindi cronologico. I punti più ambiti, quelli da scegliere potendolo fare, quando la città è tutt’altro che costruita, sono sui canali, principali o secondari, più o meno prestigiosi e più o meno percorribili da natanti di dimensioni diverse, ma sempre in grado di consentire di muoversi in un ambiente tanto particolare, con i mezzi del caso: le imbarcazioni.

L’isola della Giudecca [45.425573, 12.332065], di estensione tanto imponente da formare un intero sestiere, nome con cui a Venezia si identificano i quartieri, che pressoché mai sono quattro, mentre qui le porzioni in cui viene suddivisa la città sono appunto sei, da cui il nome, presenta lo stesso andamento. In questo caso lo sviluppo avviene dal fronte verso la città, del tutto compiuto, tra l’altro con l’intervento perfino del Palladio, e via via si espande verso il lato opposto.

È l’incompiutezza tuttora in essere, e che non ha alternativa, a consentirci di comprendere come è avvenuto lo sviluppo nel tempo dell’intera Venezia, facendoci guardare con occhi diversi ogni punto, costruito e non!

Molto differente è il caso del verde in città, quando e mentre camminiamo nelle calli e nei campi ci sembra che ci sia un livello inferiore, più basso, occupato dall’acqua, del tutto naturale, e uno più alto, interamente edificato, dalla pavimentazione su cui camminiamo agli edifici, in molti casi alti ravvicinati se non adiacenti. Non sembra esserci spazio per un poco di verde, solo in qualche campo ci sono degli alberi, isolati uno all’altro, e in qualche occasione transitiamo di fianco o attraversiamo qualche giardino.

Se guardiamo la città dall’alto, non serve volare, basta impostare in questo modo la mappa sul nostro smartphone, per capire che in realtà non è così. Il verde c’è ma è come incastonato, esattamente come avviene per le pietre preziose. Lo troviamo, infatti, circondato da mura, a volte dotate di aperture che collegano i due lati ma più spesso i muri sono alti, impenetrabili, solo le fronde degli alberi vanno oltre, superandoli. Aree private perciò, di cui non possiamo godere ma solo immaginare questi giardini in cui il naturale e l’artificiale vanno a braccetto.

A Venezia la natura è sempre imbrigliata, lo sono i canali, racchiusi dagli edifici, e lo sono i giardini, delimitati da mura, perché questo sito impossibile nasconde il suo essere più profondo, forse il suo voler sembrare una città come le altre: la banalità cerca di sembrare straordinaria e viceversa.

Più di qualcuno considera Venezia e Amsterdam molto simili, in realtà la somiglianza si limita alla doppia viabilità acquea e terrestre, che comunque si differenziano notevolmente in quest’ultima: a Venezia in terra ci si muove solo a piedi o con piccoli carretti, ad Amsterdam siamo in presenza di una vera e propria viabilità stradale, quindi via libera a biciclette, motocicli ed autoveicoli di ogni tipo, dallo scooter all’autobus.

Una differenza sostanziale e per noi piuttosto interessante è invece il rapporto tra la terra e l’acqua. Nella città olandese queste sono molto lontane, in quella italiana è l’opposto. Per rendersene conto basta guardare i ponti: in un caso si alzano di poco, nell’altro da una sponda si inerpicano verso l’alto per ritornare verso il basso sull’altra.

Praticamente cosa cambia? Lì terra e acqua, cioè strade e canali, muovendosi su piani lontani, sono pressoché indipendenti, non hanno che pochi punti di interconnessione, il che li impoverisce reciprocamente. Qui, invece, sono quasi adiacenti, per cui bastano pochi gradini, come nei palazzi ma anche negli specifici punti attrezzati nelle fondamenta (così si chiamano le calli che hanno andamento parallelo a quello dei canali) per passare da una modalità all’altra, come se la città fosse anfibia!

Per chi è abituato a ragionare da tecnico, potremmo quindi affermare che le due città, apparentemente così simili, si differenziano in sezione, cioè in quella rappresentazione dello spazio basata su un taglio, sul piano verticale, quindi ben diversa dalla pianta, che questo artificio lo fa in orizzontale.

A proposito di ponti a Venezia, come non notare il loro aumento di numero mano a mano che la città cresce ma anche subisce l’inversione della maggiore importanza dell’acqua rispetto alla terra. Nel tempo su questi manufatti vengono aggiunti i parapetti, dato che in origine le barche venivano caricate e scaricate proprio dai ponti, essendo di gran lunga più facile la movimentazione delle merci in verticale che in orizzontale.

Naturalmente non mancano le sperimentazioni nell’uso di nuovi materiali man mano diventano disponibili, segnatamente il metallo, realizzando ponti non più ad arco (come era necessario fare con i mattoni) ma orizzontali o ad arco ribassato [45.425837, 12.329037], grazie alle nuove travi.

Nei canali maggiori, viste le dimensioni, la storia è diversa. Il canale della Giudecca, non ha alcuna struttura stabile di questo tipo, solo una volta l’anno viene montato il ponte votivo, su barche, quale ringraziamento per la fine della peste [45.428908, 12.337974].

Nel canal Grande i ponti sono quattro. Il più antico, noto e non solo, è quello di Rialto [45.438017, 12.335902], località così chiamata perché emergente rispetto alle altre: “rivo alto”, edificato nel Cinquecento nella parte che diventerà la più centrale del canale e dell’intera città, perché attorno a questo nucleo si avrà lo sviluppo verso l’esterno.

Non ha alcun senso sottolineare la presenza delle arcinote botteghe, sicuramente più interessante ricordare come al tempo venne indetto un concorso per raccogliere diverse proposte e scegliere la migliore. Partecipò pure Palladio, il cui progetto, completamente diverso dal vincitore, non venne scelto ma è giunto fino a noi, per cui possiamo immaginare come sarebbe stata la città se la commissione lo avesse preferito.

Gli altri tre ponti, sicuramente di altro sapore, sono molto recenti, portano la datazione dello scorso secolo. Uno, quello dell’Accademia [45.431699, 12.328936], di fronte all’omonima raccolta di capolavori, è in legno ed è stato edificato come provvisorio nel 1932, ma è ancora lì, e anzi viene periodicamente completamente rifatto, com’era e dov’era. Cosa ci potrebbe essere di più immutabile di qualcosa che viene eternamente ricostruito sempre uguale a se stesso?

Un altro, quello degli Scalzi [45.441198, 12.322705], prossimo alla stazione ferroviaria, è invece costruito in calcestruzzo armato (quello che comunemente chiamiamo “cemento armato”, non considerando che il cemento è solo il legante di questo composto), rivestito in pietra bianca per farlo sembrare storico. È un ponte altissimo, e quindi faticoso da attraversare, non perché sotto debbano transitare imbarcazioni enormi ma per ridurre la spinta dell’arco sugli appoggi. Un motivo statico, quindi, che però poteva di sicuro essere risolto diversamente.

L’ultimo è il ponte della Costituzione [45.438831, 12.319406], ubicato vicinissimo a piazzale Roma, il terminal automobilistico, e comunemente indicato col nome del progettista: Calatrava. È dotato di struttura portante metallica di colore rosso, a vista e zoomorfa, sembra lo scheletro di qualche animale che porta i gradini in parte in vetro e in parte in trachite, la classica pavimentazione veneziana, grigia, e il parapetto in vetro, trasparente.

Ometto l’accozzaglia di polemiche cui abbiamo assistito fin dall’inizio, dai costi esorbitanti agli infortuni verificatisi a chi semplicemente transita, e soprattutto la storia della soluzione per il trasporto delle persone disabili, terminata con una struttura aggiunta a posteriori, che definire discutibile è poco, ora completamente smantellata, mi limito a segnalare come oggi si parli di sostituire le parti in vetro con la trachite, per ovviare a problemi di manutenzione ed infortuni, con buona pace delle intenzioni del progettista.

Aggiungo, a proposito dello spesso citato “com’era e dov’era”, e suggerisco ai visitatori di piazza San Marco [45.434031, 12.339097] di guardare il campanile considerandolo non solo per quello che appare ma pure per quello che è: una ricostruzione, fedele finché si vuole ma non è l’originale, dato che questo è collassato su se stesso, trasformandosi in una montagna di macerie, come si può vedere nelle foto esposte nella vetrina dello storico fotografo, ovviamente anche in internet, perché c’è perfino chi è riuscito, con la fortuna del caso, a immortalare il momento esatto del crollo.

A suo tempo si ragionò sul da farsi, con le due ovvie opzioni: la fedele ricostruzione o una nuova proposta? Un falso storico o un incerto progetto contemporaneo? Sappiamo com’è andata ma riusciamo a immaginare l’alternativa? E pure come sarebbe invecchiata, cioè come potremmo considerare oggi, quindi terminati gli entusiasmi iniziali, un progetto di un secolo prima in un contesto tanto particolare.

Infine, qualcosa di recente e di non “allineato” effettivamente è stato di realizzato da (relativamente) poco in città. È il Migrant Child, opera di Banksy, forse il più acclamato artista vivente, il cui lavoro in questo caso già sente il tempo passato. Non ci avviciniamo nemmeno lontanamente alle discussioni -sfociate in polemica- sull’opportunità di restaurare un’opera ritenuta di pregio o sul “fatto” che sia meglio lasciarla deperire, come il fabbricato cui è avvinghiata fino a farne del tutto parte. Meglio limitarsi al suggerire di visionarla, è all’aperto, discretamente percepibile dai percorsi comuni, perché non farlo? [45.435555, 12.323996]

Per apprezzare davvero questa incredibile città dobbiamo, come in tutti i casi in cui ci sia del valore culturale, coniugare la percezione più “sensoriale”, e quindi apparentemente facile, a una più “consapevole”, complessa e difficile ma più ricca!