Futuro. Parola della modernità. Per parlare di futuro, cioè di domani, dobbiamo ragionare di passi, cioè del passato, cioè di ieri. Il domani è costellato dei passi che abbiamo compiuto ieri. E se vogliamo un futuro più umano, se vogliamo che il futuro acquisisca i colori del meglio, del benessere comune, se auspichiamo serenità, sorrisi, compassione, limitazione del dolore per noi e per tutti gli esseri senzienti, dobbiamo diventare più consapevoli dei passi, di ciascun singolo passo che abbiamo mosso in passato e che muoviamo oggi.

Ogni passo è un’indicazione, un segno per immaginare ciò che sarà. Non basta. Per parlare di passi, del passato, e quindi del nostro incedere sul selciato della vita, non possiamo dimenticare che per avanzare dobbiamo perdere l’equilibrio. Ogni giorno, in ogni momento, ad ogni passo perdiamo l’equilibrio su una gamba per poterlo ritrovare sull’altra e poi di nuovo, in modo ricorsivo, senza tregua, senza sosta, ogni volta che camminiamo, passeggiamo, marciamo, corriamo, sgambettiamo, progrediamo, talvolta lentamente, talvolta di fretta. Proprio il disequilibrio ci consente il movimento, proprio il disequilibrio ci consente di evolvere, di non stare fermi, di mutare, di rendere più ampie le ali se abbiamo ancora la forma della crisalide. I passi del passato, dunque, per dare vitalità al futuro. O meglio, per dare vitalità ai futuri perché dovremmo sempre pensare al futuro con i segni del plurale.

Le pozzanghere e le rincorse

A un convegno dello scorso anno promosso da AIF, l’Associazione Italiana dei Formatori, il professor Luciano Floridi, filosofo e docente di filosofia, punto di riferimento per la modernità del pensiero dell’Italia nel mondo, ha parlato di pozzanghere. Già, di quelle pozzanghere che si formano ampie sull’asfalto delle città quando piove più del solito.

Ebbene, per poter saltare una pozzanghera, ha detto il professor Floridi, non bisogna avvicinarsi al suo bordo. Se ti accosti all’orlo, non hai lo slancio necessario per compiere il balzo. Per poter andare al di là della pozzanghera, devi arretrare, devi fare un passo indietro, due, tre passi indietro, in modo da prendere la ricorsa e poterti permettere un salto più lungo, così da non bagnarti i piedi. Ecco, la questione del futuro, in definitiva, sta tutta lì, in quella pozzanghera che si crea sul selciato, in quella pozza d’acqua in mezzo all’asfalto. Se vuoi saltarla e restare asciutto o asciutta, devi prendere la rincorsa, andare un po’ indietro, tornare al passato, a quello che è stato.

Devi tornare a leggere i classici se vuoi interpretare ciò che sarà. Devi conoscere la storia di Israele per ipotizzare le prossime mosse di chi governa quello Stato. Devi conoscere il passato della Crimea per interpretare il conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Devi ricordare i carri dei monatti nella Milano invasa dalla peste raccontata da Manzoni per comprendere l’immagine dei mezzi militari che uscivano da Bergamo durante i giorni della pandemia. Devi leggere gli ahimé di Odisseo che guarda il mare dagli scogli dell’isola Ogigia per comprendere la malinconia che ti assale nei giorni più tristi. Devi attraversare i versi di quella selva oscura per comprendere la tua selva oscura, i tuoi perché, i tuoi chissà.

Il futuro, ciò che sarà

Nella lingua di Cicerone, per definire il verbo essere all’infinito presente si diceva esse. Participio presente e participio perfetto in latino non esistono (ma possiamo dire che ente è il presente e stato è il passato). Il participio futuro del verbo essere invece esiste eccome: è futurus/a/um, ciò che sarà, ciò che sta per essere, insomma il futuro.

Futurus è quindi il participio futuro del verbo esse. Il futuro è collegato all’essenza delle cose: saranno, perché sono e perché sono state. Nel futuro abbiamo il concetto dell’essenza di noi stessi. Qui e ora siamo nel futuro. Il futuro lo possiamo percepire per ciò che è. Se vogliamo conoscere il futuro, farci un’idea di ciò che sarà, dobbiamo interrogarci sull’essere, che è sempre intrecciato con il divenire.

La parola futuro ha a che vedere con l’avvenire, con il prossimo, con il nascituro, con il venturo, cioè con quello che verrà.

Restando ancorati alla parola futuro possiamo scavare ancora un po’ sulla coniugazione del verbo esse, essere. La parola futurus, futuro, ritrova infatti in sé lo stesso tema di un altro tempo del verbo essere, quello del perfetto fui, sono stato.

Questa radice, “bhu-”, “nascere”, “spuntare”, di origine indoeuropea, questo soffio di vento prodotto nella nostra bocca, questo soffio vitale, indica l’essere. Più precisamente designa un aspetto momentaneo dell’essere. La ritroviamo nel verbo greco phyo, che significa nasco, cresco, sono generato, germoglio. Da questo verbo meraviglioso si è generata la physis, cioè la natura, ancora una volta nascitura, e collegata all’essere. Questa radice è nel sanscrito a-bhut, nell’antico slavo by, nel lituano bùvo, nell’antico irlandese boì.

L’etimo di essere ci fornisce un insegnamento: per cercare il futuro, futurus, dobbiamo quindi connetterci alle radici dell’essere, collegarci al “fui”, al “fui stato”, al soffio del passato. Solo così, con un legame forte con le origini, saremo in grado di esplorare il domani, riconoscendo le parentele tra ciò che sarà e ciò che è già stato. Volgerci al futuro significa aver percorso una strada. Conoscere e riconoscere i passi che si sono compiuti è il modo migliore per esplorare la giungla, per intraprendere il percorso che sarà.

I chissà del futuro

Sarà, andrà, verrà, amerà.
Sarò, andrò, verrò, amerò.
Il futuro è tronco. Il rotolare incessante delle parole sul piano del tempo, quel rotolare che si prende a cuore l’evolvere della lingua, ha deciso che l’accento del domani va scagliato sull’ultima sillaba. Via la coda. Via l’accento piano, cioè quello posizionato sulla penultima sillaba. Recidere sembra la chiave del tempo futuro. Una lama taglia il finale. Troncare, segare, mozzare, amputare. Perché comunque tutto un giorno finirà all’improvviso, anche se fatichiamo a comprendere il significato di questo concetto e adesso osserviamo il mondo dalla prospettiva del per sempre.

Il futuro, abbiamo visto, è impastato di passato. In italiano non possediamo molti sinonimi di futuro: nei dizionari troviamo molte più parole che riguardano il passato di quelle che fanno intendere il futuro. Per certo però qualche modo alternativo di dire futuro c’è.

Scalda vigoroso il sole dell’avvenire

Avvenire è una delle espressioni più usate. Deriva da a venire e indica appunto ciò che deve ancora venire, ciò che verrà. Alessandro Manzoni fa riferimento all’avvenire nel capitolo XXVII dei Promessi sposi: “E se la poveretta si lasciava andar qualche volta a fantasticare nella oscurità del suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò”. La poveretta è Lucia, separata a forza da Renzo, che cerca invano di dimenticarlo e di far uscire il ricordo dell’amato dalla sua mente. Lui però ritorna costantemente nei suoi pensieri erranti: nel loro caso l’avvenire, dopo mille peripezie, risulterà infine tinteggiato con i colori del lieto fine.

In questa frase dei Promessi sposi, il sostantivo avvenire viene associato al verbo fantasticare, per sottolineare che l’avvenire non è sicuro, attiene più alla categoria del forse che del certo, per tratteggiarlo serve molta fantasia. E la fantasia, secondo l’Italo Calvino delle Lezioni Americane, che cita il Purgatorio di Dante, “è un posto dove ci piove dentro”. Ecco, per cercare di comprendere l’avvenire, dobbiamo un po’ fantasticare e un po’ cercare quel posto misterioso dove piove dentro, che forse sta proprio dentro di noi.

Per la prima volta nel 1917 è apparsa la parola avveniristico, che significa non solo futuribile ma anche rivoluzionario, audace, ardito, in qualche caso addirittura azzardato. Fratelli di avvenire sono alcuni sostantivi.

Avventizio significa “venuto da fuori” e il futuro è per certo avventizio, nel senso che ciò che verrà non è del luogo dell’adesso. Il futuro è in qualche misura straniero, forestiero rispetto al nostro presente. E il nostro futuro sarà sempre più straniero e forestiero, perché per ciascuno di noi saranno sempre maggiori lo scambio e le relazioni con persone che non la pensano a nostro modo, che non possiedono la nostra cultura, che ci proporranno punti di vista sorprendenti e quindi interessanti. Avventizio vuol dire anche, per estensione, “instabile”, “provvisorio”, “incerto”. Avventizio è quel lavoro a termine, incerto e occasionale, che oggi c’è e domani non si sa, pronto a dissolversi in un amen, fragile e soggetto alla scomparsa alla prima folata di vento contrario. Avventizio è occasionale, proprio come una luce che a volte c’è e a volte non c’è più e sta a noi saperla cogliere al momento giusto. Leggendo i giornali, navigando in internet, il nostro futuro si intravvede con le insegne dell’instabilità, della provvisorietà e dell’incertezza.

Avventore è chi va a fare acquisti in un negozio o chi prende posto in un locale pubblico, sia occasionalmente sia per abitudine. L’avventore va verso un luogo, si dirige verso un luogo. Osservato con gli occhi di chi in quel luogo propone merci o servizi, l’avventore diventa un cliente. Ecco, rispetto all’avvenire siamo tutti avventori: andiamo verso un luogo ignoto. Non sappiamo se qualcuno domani, in quella strana bottega, proporrà a noi avventori qualcosa da acquistare con i talenti che avremo accumulato durante il viaggio.

La luce del domani

Un altro sinonimo di futuro è domani.
Il domani ha a che fare con la luce del mattino. L’origine di questa parola non è collegata al significato attuale (il giorno successivo a oggi) ma al mattino, la parte del giorno successiva al sorgere del sole. Domani ha come genitore il latino tardo dē māne, che significa “al mattino”.
Dal significato originario di “al mattino”, domani ha iniziato a voler dire “il mattino successivo” e quindi “l’indomani”.

Lo stesso avviene nel polacco jutro, nel lituano rytói, e nel tedesco Morgen, che in origine significavano “(al) mattino”. Morgen, il domani a Berlino e Francoforte, è cugino del morning, cioè del mattino inglese, la prima parte del giorno: il domani tedesco, Morgen, e il mattino inglese, morning, condividono tra loro un’origine proto-germanica. Del resto, anche il domani inglese tomorrow, ha la stessa origine: deriva dall’antico inglese to, “a”, + morgenne, dativo di morgen, che significava morning, mattino. E lo spagnolo mañana, “domani”, parte anch’esso da un’idea di prima parte del giorno: così come il portoghese manhã, anche mañana deriva da *(hora) maneana, “ora mattutina”.

Torniamo per un istante al de māne dei romani, perché anche questo tornante assicura un panorama che merita di essere osservato. Quel māne, mattino in latino, è una forma sostantivata dell’aggettivo mānis, che voleva dire “buono”, nel senso di “buon’ora”, “alla buon’ora”, in quanto di primo mattino. Ma se scaviamo ancora un po’ troviamo che quel mānis è in realtà parente degli dei Mānes, che nell’antica Roma rappresentavano le anime dei defunti, che poi sono state divinizzate. Ancora una volta quindi, le anime del passato, in questo caso anime buone che si prendono cura di noi ritornano, per consentirci di vivere meglio domani. Lo spirito di ciò che è stato, come nel futuro che conserva le tracce del “fui”, si rivela anche nel domani, di cui gli dei Mani sono etimologicamente custodi di positività.

Marco Valerio Marziale, poeta latino del primo secolo dopo Cristo, propone una riflessione sul domani in un epigramma dedicato all’amico Giulio:

Oh, Giulio, amico mio, nei miei ricordi secondo a nessuno,
se le lunghe confidenze e i vecchi impegni hanno valore,
ormai sei quasi vicino ad avere sessanta anni,
e la tua vita può ancora contare su pochi giorni.
Non è giusto rimandare quello che (domani) potrebbe esserti negato,
e solo questo (infine) ha valore, quel che è stato, ti appartiene.
Ti aspettano ostacoli fatti di sofferenze e fatiche,
e le gioie della vita non rimangono, ma volano via effimere.
afferrale tutte con entrambe le mani e tienile strette:
poiché spesso sfuggono in qualche modo e scivolano tra le braccia.
Non è saggio, credimi, l'uomo che dice “vivrò”:
vivere domani è già tardi: vivi oggi.

Ecco il suggerimento per il presente e il futuro: vivi oggi anziché dire “vivrò”.

Il domani dei romani e delle romane

Ma Marziale, Cesare e Cicerone che parola usavano per dire domani?
Ebbene, il dizionario di latino ci rimanda a cras, che non ha avuto molta fortuna nel suo futuro ma che ritroviamo nel verbo italiano procrastinare, che significa differire, non fare subito ma rinviare ad un momento successivo. Ebbene il nostro verbo deriva dal latino procrastināre “rimandare all’indomani, differire”: con il prefisso pro- deriva da crastĭnus, “del giorno seguente”, derivato di cras, “domani”. Per molti coach, procrastinare significa coltivare la mentalità dell’insuccesso. Del resto, diceva Benjamin Franklin, scienziato e politico americano del ‘700, “Tu puoi rimandare, ma il tempo non lo farà”. Per lavorare sul futuro è meglio non procrastinare: oggi è meglio di domani.

Il mio, il tuo destino

Altra parola connessa al futuro è il destino, sostantivo fratello del verbo destinare. Nel destino abbiamo l’idea della fissità, di ciò che non possiamo modificare, di ciò che è stato scritto sul nostro conto e che appare come necessario. Il destino è predeterminato (e non è stato predeterminato da noi). Molto di ciò che ci succede dipende da noi ma non tutto è incluso nella nostra sfera di influenza: esserne consapevoli è un elemento di saggezza.

Possiamo abbandonare una persona al proprio destino, quando voltiamo le spalle al prossimo e lasciamo che le cose vadano. Possiamo abbracciare il nostro destino, quando ci rassegniamo all’inevitabile. Possiamo anche essere artefici del nostro destino, quando lottiamo con tenacia e forza di volontà per fare in modo che il futuro porti le tracce dei nostri desideri. “Ci sono sempre due scelte nella vita”, diceva lo scrittore e conferenziere americano David Waitley, “accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle”.

In inglese il destino è destiny. In tedesco assume la forma del neutro Schicksal, che è collegato al verbo schicken, “inviare”, ma anche “organizzare”, “preparare”, “ordinare”, “disporre”. Il destino dei tedeschi è dunque qualcosa inviato dal cielo, è mandato, viene spedito: noi siamo solo i destinatari, nostra è la cassetta delle lettere per la ricezione, non siamo mai mittenti, non abbiamo la possibilità di scrivere nessun nome su nessuna busta col francobollo del destino.

In un’intensa novella di Giovanni Verga, Un processo, il destino diventa una sentenza: “Poi tornò a sedersi, accennando ancora del capo, mentre la Corte si ritirava per deliberare. E rimase immobile, nell'ombra, aspettando il suo destino. Era venuta la sera”. Il protagonista della novella è un facchino che ha ucciso il suo rivale per gelosia: era il suo destino proteggere la bella Malerba, “donna di mondo”. È stato suo destino attendere il giudizio della corte. Sarà nostro destino accogliere ciò che ci arriverà.