"Che fai?”, gli domandai.
E lui, a sua volta mi fece una domanda: “Qual è la forma dell’acqua?”.
“Ma l’acqua non ha forma!”, dissi ridendo: “Piglia la forma che le viene data”.

Così un dialogo de La forma dell’acqua, il primo dei romanzi di Andrea Camilleri in cui il protagonista inizia a essere il commissario Salvo Montalbano. E il liquido che piglia la forma che le viene data diventa emblema dell’adattamento, oltre che metafora della complessità.

Come in tutti i sistemi complessi, l’acqua si situa tra l’ordine e il caos, tra la condizione di regole chiare e di dimensioni ortogonali tipica del ghiaccio e la condizione instabile, disordinata, confusa che è propria del vapore.

I due atomi di idrogeno abbracciati all’atomo di ossigeno sono acqua tra i due tipping point del cambio di stato, tra gli zero gradi che portano all’ordine e i cento gradi che portano al caos. E quando l’acqua è liquido, ecco che assume la forma del contenitore che la accoglie, si adatta, si aggiusta adagiandosi alle pareti che la ricevono. L’acqua si assesta ma non si rassegna. Lo sanno le donne e gli uomini che osservano il fiume che si gonfia, dio potente che disalveandosi inonda intere pianure. Lo sanno le persone che a Venezia abitano al piano terra e tremano al suono lugubre della sirena mattutina o all’attivazione notturna delle pompe di scarico. Lo sanno gli esseri umani che vivono nei Paesi spazzati dai monsoni. Lo sa chi ricorda che l’acqua scava la roccia.

L’acqua è paziente ma vitale, anzi è il simbolo più puro della vita. È silente ma non è succube, s’arrangia, laddove l’arrangiamento è anche un accordo, come nella musica, come traspare dagli spartiti che ti scaldano il cuore.

E quindi l’acqua, se la sai osservare con curiosità, sa disvelarti molto di come sei e di come potresti risuonare al meglio, tu che sei insieme orchestra e orchestrale, insieme direttore/direttrice e pubblico della tua vita, talvolta plaudente, talvolta consapevolmente critico. Perché adattamento non è abbandono né rassegnazione e spesso si innesta in un ascolto nitido dei futuri (plurale) possibili e delle loro melodie.

“L’acqua di un fiume si adatta al cammino possibile, senza dimenticare il proprio obiettivo: il mare”, scrive a questo proposito lo scrittore pop Paulo Coelho.

Quando ti adatti e prendi

L’essere umano ragionevole si adatta al mondo. L’essere umano irragionevole insiste nel cercare di adattare il mondo a sé. Quindi tutto il progresso dipende dall’essere umano irragionevole.

Così, con un aforisma spiazzante, ci folgora lo scrittore irlandese George Bernard Shaw. Tessiamo le lodi dell’adattamento della persona ai contesti, fondamentale per la sopravvivenza, ma dobbiamo fare i conti anche con il mancato adattamento, con la prometeica volontà di adattare i contesti alle persone. E allora qui, in questo ganglio del pensiero, si innesta il tema della leadership nelle situazioni complesse, dove tutto appare annodato, dove ciascun elemento del sistema è in connessione con gli altri. Entri in un sistema, ti modifichi tu e modifichi il sistema nel quale sei entrato. Così è la vita: costanti somme di et-et che cerchiamo pervicacemente di separare, di distinguere, di considerare come se fossero or-or senza accorgerci delle forzature che provochiamo.

Il verbo adattare deriva dal latino tardo adaptāre, da aptāre che voleva dire ‘adattare’, ‘mettere in posizione’, ma anche ‘preparare’, ‘disporre’, ‘allestire’, ‘apprestare’, con la premessa della particella ‘ad-’. L’adattamento è in qualche misura un inizio, un avviare, uno stare per partire. L’adattamento è una trasformazione. Chi si adatta è atto, cioè idoneo, ha l’attitudine per qualcosa, si attacca alla superficie e assume una posizione cangiante. Il verbo raro da cui prende origine è apĕre, che appartiene al lessico indoeuropeo arcaico e ha corrispondenze precise nel vedico ápat ‘raggiunse’ (aoristo), nel sanscrito āpnoti ‘cogliere’ e nell’ittita epmi ‘prendere’. Quando ti adatti inizi a raggiungere, inizi a cogliere, inizi a prendere. Ma per sapere cosa devi avere uno scopo.

L’arte di arrangiarsi (e di arrangiare)

In musica l’arrangiamento consente al suono di assumere la forma desiderata da chi compone. Arrangiare vuol dire scegliere e quindi decidere cosa tenere e cosa evitare. Vuol dire sviluppare e dare armonia al tutto, con sapienza e consapevolezza. Arrangiare ha a che fare con una visione chiara, con la luce, con la capacità di comprendere cosa viene prima e cosa viene dopo. Arrangiare è connesso con l’idea del disporre secondo un disegno. Nell’arrangiare appare l’idea del mettere in fila. Nell’arrangiare ti appaiono i dipinti di Piet Mondrian, con le sue linee rette, con i colori senza sfumature dentro i confini definiti.

Quando ti arrangi, invece, fai al meglio che puoi, ti arrabatti, ti barcameni, vivacchi con l’obiettivo di riuscire a cavartela, nonostante tutto. Quando accarezzi l’arte di arrangiarti, abbracci l’idea di accomodarti alla meglio. Nell’arrangiarti sparisce Mondrian e ti ritrovi ad ammirare il dripping di Jackson Pollock su una tela distesa per terra.

Basta trasformare un verbo transitivo, arrangiare, in intransitivo, arrangiarsi, e si aprono alla vista panorami differenti.

I diversi significati di arrangiare e arrangiarsi sono la spia della loro diversa provenienza. Arrangiare è sinonimo del francese arranger ‘mettere in ordine’, diffuso attraverso il linguaggio della tecnica. Propriamente voleva dire ‘mettere in fila’, derivato di rang ‘fila’, ‘ordine’, che ritroviamo nell’italiano rango, il ‘grado sociale elevato’, la ‘riga’, la ‘fila’ per l’appunto. Arrangiarsi invece è sinonimo dello spagnolo ranchearse ‘sistemarsi alla meglio’, ‘trovare un alloggio’, ‘accamparsi’, diffuso attraverso il gergo militare. Arrangiarsi voleva dire togliersi d’impiccio con espedienti o con mezzi di fortuna. Ad aver generato quel verbo è il sostantivo spagnolo rancho, che significa ‘accampamento’, ‘truppa’ e anche ‘pasto consumato dai soldati o dai marinai’, da cui l’italiano rancio.

L’origine remota di entrambi i verbi, arrangiare e arrangiarsi, è il francese hring ‘cerchio’, ‘raccolta’. In entrambi i casi fa capolino l’idea dell’anello, ring in inglese, Ring in tedesco, che in italiano ritroviamo nel ring del pugilato, nel rango delle persone che contano, nella ringhiera. Nei comuni medievali l’arringo era il luogo riservato alle riunioni dei cittadini, la piazza, e quindi anche l’assemblea riunita in questo luogo per prendere le decisioni. Da arengo/arringo si è avuto il verbo arringare, che significa ‘parlare all’assemblea’ e da questo il sostantivo arringa ‘discorso pubblico’, il discorso pronunciato davanti a una folla, a un'assemblea o in tribunale, con notevole impegno oratorio, volto soprattutto a persuadere e a far battere i cuori di chi ascolta. Tutto è un anello, tutto torna, tutto tintinna, come in una melodia armoniosa, ascoltata da un’ampia assemblea di persone ma transitivo e intransitivo non solo la stessa cosa, hanno origini diverse e pertanto scopi diversi per te che usi le parole con consapevolezza.

Prego, si accomodi

Diciamo così: “Prego, si accomodi”, quando vogliamo invitare una persona a condividere i nostri spazi. E la invitiamo quindi a mettersi comoda, ben disposta, adattata al luogo. Nell’accomodamento fa l’occhiolino la comodità, preceduta dal prefisso ‘ad-’. Nella comodità traspare l’essere comodi. Nell’essere comodi si coglie il nocciolo del modo, in questo caso con il prefisso ‘con-’.

L’aggettivo comodo significa ‘conveniente’, ‘accogliente’, ‘confortevole’. Deriva dal latino commŏdus, derivato a sua volta da mŏdus che ai tempi di Orazio voleva dire ‘modo’, ‘misura’, ‘norma’. Proprio il poeta latino Quinto Orazio Flacco ha composto (Satire I, 1, vv. 106-107) il verso “est modus in rebus”, ‘c’è una misura in tutte le cose’, cioè non vanno oltrepassati i confini: è un appello alla moderazione, a non andare oltre ciò che è consentito agli esseri umani, a richiamare il senso della misura.

Quella parola mŏdus nel senso di ‘misura’ ha assunto significati speciali nelle discipline più diverse (musica, grammatica, architettura, agricoltura, diritto, filosofia) e risale alla radice indoeuropea “med-/mod-” “che si connette all’idea del ‘misurare’ e che si ritrova in medēri ‘curare’e in meditāri ‘pensare’, ‘valutare’.

La meditazione è una forma di cura. Quando meditiamo siamo medici di noi stessi. E aiutiamo, con consapevolezza, la nostra anima ad accomodarsi nel nostro corpo, adattandosi al qui-e-ora, assestandosi tranquilla nell’assenza di desideri.

Tra rassegnazione, sopportazione e assuefazione

Sinonimi dell’adattamento dal gusto non gradevole sono rassegnazione, sopportazione e assuefazione.

Nella rassegnazione incontriamo l’idea dell’accettare la volontà altrui anche se contraria alla propria. Si rassegna chi rinuncia a seguire la propria strada, chi alza le mani e lascia che gli eventi guidino il proprio percorso. Rassegnare è un prestito dal latino resignāre che voleva dire ‘togliere il sigillo’ e quindi ‘invalidare’, ‘sciogliere’, ‘rinunciare’, da signāre, ‘marcare’, ‘contrassegnare’, ‘mettere il segno’. Il significato di ‘restituire’, ‘riconsegnare’ è proprio del latino medievale resignare e si sviluppa da quello di ‘rinunciare’, mentre l’uso intransitivo di rassegnarsi (secolo XIV) si è sviluppato in ambiente cristiano in quanto ‘consegnarsi, rimettersi alla volontà divina’.

Quando ci rassegniamo, rinunciamo a noi e ci rimettiamo appunto alla volontà dell’altro o dell’Alto. Quando ci rassegniamo non siamo noi a mettere il segno ma lasciamo che il segno lo traccino altre persone sulla nostra pelle e nella nostra carne.

La sopportazione è annoiata pazienza, condiscendenza al destino e agli eventi anche avversi che possono capitare, tolleranza incondizionata. Il sopportare deriva dal latino supportāre, da portāre ‘portare’ con il prefisso sŭb-, ‘sotto’. Nel sopportare si porta da sotto, come gravati da un macigno sulle spalle che quando sorreggono troppo fanno male.

Con l’assuefazione ci adattiamo in modo permanente, metodico, non condizionato, a tal punto da rendere tutto abitudine, tran-tran, accettazione senza pensiero. Assuefare deriva dal latino assuefăcĕre che voleva dire ‘abituare’, composto di suē(tus) ‘abituato’ e făcĕre ‘fare’ col pref. ‘ad-’. Da quel suē(tus) è derivato l’italiano consueto, parente di mansueto, con il significato originario di ‘adattato alla mano’ e di conseguenza ‘addomesticato’, e parente di desueto cioè che ha perso l’abitudine, che non è più assuefatto.

Sistemarsi nei sistemi

Nell’adattarci ci sistemiamo, assumiamo una forma idonea al contesto, variamo la posizione in modo da disporci con comodità. La sistemazione è ordine e assetto, è disposizione e organizzazione, è definizione e assestamento.

Ci sistemiamo. Nell’esserci sistemati, stiamo. Restiamo. Sostiamo. Assumiamo una posizione eretta, slanciata, protesa verso l’alto.

Il verbo sistemare è connesso al sistema, dal greco sýstēma -atos ‘complesso organizzato’, derivato dalla radice del verbo synístēmi ‘mettere insieme’, ‘compattare’, ‘organizzare’, a sua volta dal verbo hístēmi ‘porre’, ‘collocare’ col prefisso syn- ‘con’. Quando ci sistemiamo, stiamo. “Si è sistemato/si è sistemata”, lo dicevamo in passato quando qualcuno aveva trovato una buona collocazione al lavoro o un buon partito per il matrimonio.

Oggi, in contesti sempre fragili e in evoluzione costante, non è più così. Nessuno è sistemato per sempre. Sistemare è sempre più uno stare nel qui-e-ora, impermanente condizione dell’essere transeunte. La sistemazione è in continua risistemazione, le regole del gioco cambiano mentre stai giocando. Questo ti spiazza, ti confonde, ti toglie certezze. Questo ti impone il cambiamento perenne, il diventare costantemente una nuova pianta, come Dante Alighieri alla fine del Purgatorio:

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda

Sistemarsi e risistemarsi come piante novelle rinovellate di novella fronda è la condizione per ascendere a un Paradiso tutto da scoprire, in un viaggio incerto da affrontare con cuore puro e disposto a salire alle stelle.