Nell'Italia del 2013, svenata da salassi insostenibili, umiliata da comportamenti intollerabili, sbeffeggiata da promesse improbabili, voltarsi indietro può essere motivo di ulteriore, bruciante sconforto. È fin troppo facile oggi, in un paese letteralmente paralizzato fra lo sfacelo dei trasporti pubblici, la follia di proposte anacronisticamente faraoniche e l'isteria di localismi anti-tutto, restare amaramente stupiti riscoprendo, sullo stesso amato-odiato territorio, la compresenza di numerose e fantasiose infrastrutture tra la fine dell'Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo scorso.

L'estensione e la varietà di questa rete perduta raggiunsero l'apice fra le due guerre mondiali, allorchè in un panorama già ricco di tranvie interurbane, guidovie, funicolari e ferrovie a scartamento ridotto, si aggiunsero alcune funivie, non solo laddove ci pare ovvio immaginarle, come in Trentino-Alto Adige, ma anche in contesti non sciistici, anzi a supporto di attività tutt'altro che ludiche: è il caso degli impianti presso i santuari di San Luca a Bologna o di Montallegro a Rapallo.

Sempre in Liguria, ma sulla Riviera opposta, l'amministrazione comunale di Sanremo studiava la realizzazione di una località climatica, il “Villaggio Vetta”, sulla cima più alta del suo territorio: il Monte Bignone. La necessità di un adeguato collegamento fra il nuovo insediamento e la costa si sarebbe concretizzata nella più lunga funivia al mondo: un tracciato di 7,6 chilometri suddiviso in tre tronconi. Nel 1930 la Compagnia Italiana Funivie Elettriche (CIF) presentava il grandioso progetto, approvato due anni dopo; nel 1933 la CIF firmava con il Comune il contratto di costruzione e gestione venticinquennale, mentre il Comune cedeva alla Ditta alcuni terreni a Bignone e si impegnava a portarvi l'acqua.

Il 28 ottobre del 1936 la funivia è inaugurata: da quota “Zero”, in realtà sopra il Mercato coperto, procede in orizzontale per alcune centinaia di metri, dopodichè sale verso la prima stazione di interscambio, presso il Golf; da qui, aggrappandosi a numerosi piloni, si inerpica fino a San Romolo; l'ultimo tratto prima del capolinea di Monte Bignone viene coperto da un'unica, arditissima campata di 2000 metri, all'epoca la più lunga al mondo. Raggiunta la vetta, il visitatore stenta a credere di aver lasciato, solo 40 minuti prima, la riva del mare: qui, a quota 1299, egli è circondato da prati in cui pascolano le mucche (non a caso un manifesto dell'epoca recitava “Dai Palmizi ai Pini”), e il suo sguardo può spaziare fin oltre il confine. Inoltre, con 38 lire, egli può approfittare del ristorante annesso alla stazione. Per realizzare questa infrastruttura si è ricorso a quanto di meglio disponeva la tecnologia italiana dell'epoca: le cabine, costruite con alluminio avionico, coniugano leggerezza e incombustibilità, mentre le funi sono trainate da potentissimi motori Isotta Fraschini, gli stessi delle mitiche motosiluranti MAS.

Tutto lasciava presagire l'imminente realizzazione di una rinomata località climatica, forte di una situazione logistica e di una dotazione infrastrutturale invidiabili, per la gioia dei tanti ospiti benestanti dell'estremo Ponente. Ma il villaggio “Sanremo Vetta” non sorse mai. La guerra segnò la fine del turismo di lusso in Liguria, in verità già indebolitosi negli anni Trenta, mentre l'acquedotto raggiunse Monte Bignone solo nel 1946. La Sanremo del boom economico, abbruttita da speculazione edilizia, motorizzazione di massa e infiltrazione mafiosa, si dimenticò gradualmente della sua funivia: puntare sulle spiagge, sul Casinò e sul nuovo Festival della Canzone era decisamente più facile. Lungi dal potenziare l'impianto esistente, il Comune, con miopia uguale, se non maggiore, a tante altre amministrazioni locali italiane, introdusse un'autolinea sostitutiva, affidandole il compito tutt'altro che banale di inerpicarsi su per la stretta e tortuosa Via Marsaglia.

Eppure la funivia continuava a piacere e ad attirare turisti, tanto che al momento del travagliato passaggio alla gestione pubblica, fra il 1962 e il 1963, i bilanci erano ancora in pareggio. La situazione si sarebbe aggravata di lì a poco: l'Azienda Autonoma di Turismo e Soggiorno, lungi dall'investire fondi ancora facili da reperire per ammodernare l'impianto aumentandone velocità e capacità, operò tagli assurdi, riducendo il servizio a sole 5 corse al giorno, di cui l'ultima alle 17 in estate. Parallelamente, l'amministrazione comunale si disinteressava totalmente a Monte Bignone, non predisponendo neanche un'area attrezzata, una zona pic-nic o anche solo una panchina in questo straordinario luogo panoramico.

Il passo successivo fu un'autentica tragicommedia: come da pessima italica tradizione, l'ondata emotiva provocata dal disastro della Funivia del Cermis (1976) portò alla drastica revisione della normativa di sicurezza per gli impianti a fune e al successivo obbligo di adeguamento di quelli esistenti, pena la soppressione. Inutile dire che per molti di loro, già finanziariamente in crisi, non rimase che chiudere. Fra le vittime c'era anche la funivia San Remo-Monte Bignone: nel 1981 il servizio cessava, ma le funi avrebbero continuato a penzolare dai tralicci per molto tempo. Questo impianto decadde, da interessante infrastruttura malgestita, al rango di sterile tormentone elettorale: senza soffermarci sulle innumerevoli alternative ipotizzate (ovovia, funicolare, ecc.) con chissà quanta cognizione di causa, ricordiamo che l'unico studio concreto per un recupero, magari parziale, di quest'opera, si risolse in un contenzioso fra il Comune e il tecnico incaricato, conclusosi con il licenziamento di quest'ultimo.

Se vogliamo trovare un suggello simbolico alla storia della funivia, probabilmente esso è la delibera di Giunta che, nel 1994, disponeva la rimozione delle funi. Successivamente la stazione a valle è stata restaurata e adibita ad asilo infantile, mentre quella del Golf ospita da alcuni anni una società sportiva. La funzione testimoniale è allora affidata ai diciotto tralicci disseminati lungo il tracciato e alle stazioni di San Romolo e Monte Bignone Vetta, quest'ultima solo in parte occupata da un presidio della Protezione Civile: motori, guide, ingranaggi, saggiamente sotto chiave, sono ancora quasi tutti lì, ma soprattutto è possibile ammirare due delle originarie cabine passeggeri, ancora intatte, fatti salvi i danni dei soliti idioti, e per niente arrugginite: due arzille ottantenni incuranti del naturale trascorrere del tempo e del futile chiacchiericcio di amministratori già dimenticati.