Semplicemente bisogna abbandonarcisi al dolore, bisogna forse soltanto lasciarsi cadere all'indietro a braccia aperte come quando lo si fa con qualcuno di cui ci si fida. Non bisogna porre resistenza, occorre accettare e abbracciare. Sì. Facile. Come no.

C'è però qualcosa di estremamente raffinato nel dolore, porta con sé un fascino dimenticato, come una silhouette intagliata nel ghiaccio, o nella nebbia. Algidità ed evanescenza. Ma cosa ne farò di questo dolore in tasca? Mi rimangono solo le parole come granelli di sabbia in una clessidra presuntuosa, le parole però resistono anche oltre il tempo. E’ per questo che decido di dare forma a questa "cosa". Spezzata, derubata, sfiancata, squarciata a metà, una parte sembra persa per sempre. Una nudità forzata. Quanta arroganza allora si insedia tra le pieghe del dolore.

Il titolo di un famoso libro recita così: Un giorno questo dolore ti sarà utile. Geniale. Certo. Ma oggi? Oggi, qui è ora, quando il mio respiro è corto, il mio cuore spezzato e il mio sguardo un deposito di lacrime? Come me lo racconto oggi, che tutto questo nel futuro mi sarà persino utile? Troppe domande. Devo tornare alle origini, e occorre abbandonarsi. Bisogna conviverci con questo bastardo. Mi sia concesso il commento sprezzante. Una cicatrice in più. Una delle tante. Il peggior collezionismo. O forse il migliore, quello più altruista. Perché se ci si fa male, se si cade, beh vuol dire che senz'altro almeno un tentativo di credere in qualcosa esterno da noi c'era.

Ma adesso non c'è più. C'è solo questo specchio di dolore a fare compagnia, come in un bar alla Hopper, dove la solitudine sa di brandy e nostalgia. Che poi io neanche lo bevo il brandy. Ma nell'abbandono c'è un conforto. C'è qualcosa di altro. Allora ho camminato tra le pagine di Tondelli, diamine, che diavolo di penna. Tondelli sapeva trovarci le parole, dritte, puntuali, terribilmente sincere, crude, nude, vere. Maledettamente sporche di bellezza. Così sono finita sulla prima pagina di Autobahn da Altri Libertini. Quelle frasi, messe in fila una dopo l'altra come ombre, sembravano state scritte per questo dolore. "Lacrime lacrime non ce n'è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come un uovo e manda via il vischioso male, quando ti prende lei la bestia non c'è da fare proprio nulla solo stare ad aspettare un giorno appresso all'altro. E quando viene comincia ad attaccarti la bassa pancia, quindi sale su allo stomaco e lo agita in tremolio di frullatore e dopo diventa ansia che è come un sospiro trattenuto che dice vengo su e poi non viene mai".

Accidenti. Ho pensato. Mi tremavano le gambe. Quelle parole erano piombate all'appuntamento con i miei pensieri. Hanno rotto quel silenzio. Come quando Parmiggiani creò una delle opere più belle, per me. Il labirinto dei vetri infranti. Come le parti di me che si erano lacerate. Un dedalo di lastre di vetro, grandi e spesse, frantumate dall'artista con un grande martello. Grandiosa bellezza e impossibilità. Qualcuno ha definito quel lavoro come una negazione di praticabilità. Iconoclastia ed esplosione. Torna il senso di vertigine e mi sento come dentro l'ouverture, le Ebridi di Felix Mendelssohn, questo dolore era diventato un'isola dell'iperrealismo. Tutto più reale del reale.

Un crescendo. Un tormento. O intorpidimento? Quando uno si avvolge nel proprio dolore forse a causa di un troppo sentire, finisce con il sentire sempre meno. E allora c'è uno sparo. Il 19 Novembre del 1971 l'artista Chris Burden in Shoot, una delle azioni più celebri della storia dell'arte d'avanguardia, si fece sparare sul braccio sinistro da un amico. Scomparso da poco tempo, all'età di 69 anni dopo una lunga malattia, è stato uno dei massimi rappresentati della body art più estrema. Questa per me è un'altra di quelle opere faro, perché con quello sparo, Burden mi aprì molte domande. Quello sparo fu a detta dell'artista "un modo per controllate il destino". Una dichiarata critica a quello che stava succedendo in Vietnam. Tramite il corpo dell'artista, ci si interrogava sul perché di tanta crudeltà.

E a proposito di crudeltà umane e barbarie, in Disumane Lettere Carla Benedetti cita Steiner che in un saggio del 1967 scrisse: "Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera e il mattino dopo recarsi al proprio lavoro a Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio è rozzo, è un discorso banale e ipocrita [...] gli strumenti tradizionali della civiltà - le università, le arti, il mondo librario - non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spezzo anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla e a difenderla. Perché? Quali sono i legami, per ora assai poco compresi, tra gli schemi mentali e psicologici della cultura superiore e le tentazioni del disumano? Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispongono allo sfogo delle barbarie?". E ancora la Benedetti riassume: "Come è possibile che la grande circolazione di opere d'arte e di pensiero che si dà nella nostra epoca, molto superiore a quella di epoche precedenti, possa coesistere con un tale aumento di barbarie? Questo è sicuramente un aspetto del "grande dolore".

Sempre nello stesso libro si parla di un altro illustre scrittore, Gadda, e la Cognizione del dolore, dove tutto accade in un intreccio, tutto è colmo, persino il silenzio e la luce. "Il crepitio infinito della terra". Gadda che come scrive la Benedetti "ha una percezione del mondo che non separa ciò che profondamente è unito: un tutto che in realtà è un inseparato, che tiene esplosivamente assieme ciò che non riusciamo a dominare dentro alla concatenazione della storia". "Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore".

John Everett Millais, pittore preraffellita, dipinse tra il 1851-1852 uno dei quadri dove il rapimento e il dolore trovano un soppesato ritmo. E ciò si tramuta nel beffardo destino di Ofelia, portata via dall'amore, dal fato e dalla natura. Eroina shakesperiana, oggi mi sento esattamente come lei. E più la osservo in tutti i miei libri di storia dell'arte e più ne subisco il granitico fascino. Emblema del dolore estatico, quasi vicino a una sacrale rassegnazione, in procinto tra due mondi, tra la vita e la morte, l'esangue volto è un riflesso di rara bellezza. Ofelia non trapassa soltanto lo scorrere dell'acqua e del tempo ma anche l'immagine specchiante, lei emerge dall'irreale, dall'etereo, per l'ultima volta. E la natura serrata le fa da cornice quasi da gelosa custode, infittisce il verde tappeto per confonderla con la vita della flora. Ofelia viene ritratta qui con piena eleganza, dignità, e raffinatezza, che mai nessun dolore fu così spiritualmente agghindato.

Qui, dopo varie digressioni personalissime, alogiche e anacronistiche, cercando conforto in parole, gesti, materiali o pitture, rimango fedele a questa linea tracciata di dolore, ritrovo la pace, almeno per oggi. Così. Diamanti e ruggine.