Riprendo il filo.
Un filo.
Un filo d'acqua a cucire le luci con le tenebre.
Ora.
Nel poi della nascita di un’opera.
Ora che le acque sono a declinare. Defluendo postume, a riversarsi verso i canali del discernimento poetico.
Si tratta di un invito.
Propongo un itinerario. Una via a partire da un varco.
Nella mappatura del mio creare, il luogo verso cui andare l’ho intitolato Vergine nera del melograno.
Mi inoltro nel momento della marea calata.
Nell’istante del riassorbimento delle acque. Attraverso le terre che si snodano spiralidi.
Nel tempo il cui il dionisiaco e l’apollineo non sono più tempesta e radianza, bensì tregua.
Quando il gioco è avvenuto e sul terreno un cascame di perle. Perle d’oro. D’uova di perle.
Ricordo vivido il sapore della sabbia delle regioni che il tempo teofanico ha abitato. Quei luoghi in cui le acque e le terre dialogando si compenetrano e si rubano lembi in concessioni di simmetriche geometrie.
Escursus dipanati in sinuose imprevedibili.
Il tutto a partire da una perla.
Da solo una perla.
Solo.
Ne colgo una.
Una tra le tante.
Una più di tante.
Seme gravido di oro racchiuso nel palmo.
Distolgo le mani entrambe.
Destra e sinistra cercando vertigini. Sinistra e destra e la lascio precipitare.
Tanto in fondo, tanto più in fondo quanto è profondo il silenzio che posso ospitare.
Anche quando si getta un'ineffabile nulla in uno stagno si originano increspature.
Onde di cristalli a riverberare.
Tento di restituire quei portali di suoni.
Quel canto ineccepibile.
Quello stesso udito prima.
In anticipo.
In anticipo di ogni qualsiasi nota.
Credo.
Credo che il principio del riconoscimento regoli le vite.
Ogni atto.
Ogni creazione.
Credo e ancor più azzardo, che sia possibile riconoscere per lingua di affinità.
Credo e ancor più azzardo che si possa trattare di una sintonia per sostanza. Per essenza.
Credo e ancor più azzardando in cuor di metafora e ipotizzo un simile all'abisso equoreo.
Lo sento sempre a ogni cominciamento.
Prima.
Prima quale rumoreggiare lontano.
In fondo.
Quel fondo che, quando udito davvero, come impronta segna. Marca a fuoco di nostalgia le anime di chi lo ha percepito.
Segno visibile e riconoscibile come graffio nello sguardo solo per coloro e da coloro che ne hanno subito la fascinazione per un sentore di sterminatezza. Infinitezza. Profondità immensa.
Ammaliante come canto di sirena. Sirena e silenziosa. Abissalmente silenziosa.
Una musica invero. Una sinfonia d’ombra.
E se ti tendi fino al punto dello smarrimento, è componimento d’acque.
A rincorrersi, scintillii oscuri e profondissimi bianchi.

Occorrerebbe desertificare i rifugi.
Si può temere di non riuscire a sollevare e alleggerire il passo. Di non avere abilità per fare danza ancora.
Ma qualcosa di dannatamente ostinato induce a tergiversare nei passi. Fino a calpestare gli stessi propri piedi.
Si raccoglie la sabbia dagli occhi. Si sputa quella a raschiare la gola e si affonda nell’amalgama dalla mano su fino al petto.
Si triturano le polveri a trasformarle in impasto.
Si sparge il fango sul petto. Sul ventre. Sugli occhi. Se ne saturano le orecchie per poter respirare ancora.
Ci si fa castello.
Ci si insedia nelle abitate meandriche stanze.
Centimetro per centimetro si mordono e si rosicchiano i perimetri.
Un territorio ferito è più respirante.
Anche Eros, quando sopraggiunge menando le sue frecce, il corpo degli amanti eredita una ferita.
Una apertura.
Un varco.
Un passaggio.
Un ponte.
A volte si presenta invece come falena a sbattere le ali contro un bagliore.
A volte quale ferinità che chiede di addomesticare.
Di più.
Può voltarsi, il giovine bendato e sorriderci.
Tutto accade nel fondo dello sguardo. Nelle terra dell’oltre qui.
Si vede più in fondo lì.
Più a fondo lì a occhi chiusi.
Si cammina confusi. Funamboli in uno scenario inedito.
E ogni nuova creazione ci presuppone nuovamente ebbri a ripartire dalla fine.
Rovesciando il tappeto.
Dal tramontare della luna al sorgere del sole.
Ho azzardato ogni parola che vi consegno. Consapevole che non si esaurisce l’indicibile in ogni raccontare.
Sì è vero, che né intendo farlo.
È dal segreto che si misura la propria umanità.
La tua. La mia.
Mentre infilo parole, l’una impigliata all’altra, si sente il suono dello schiumare di un fiume.
Si rincorrono i gorghi, nell’estasi dell’esistere.
Le acque che ci sottendono sono incendiabili. Magma.
Magma è la vita.
Magma è il canto quando si fa in verità.
Tutto ingloba e tutto trasmuta incessantemente plasmando e ri-plasmando.
Chi elegge l’arte quale via, volta e rivolta la clessidra nella via, ascoltandone i tumulti.
Lambisce perle con la sua saliva.
Si candida per essere oracolo e donare un flacone di umori distillati.
Si lascia parlare per nascondimenti.
Si fa graffiare l’udito per portare il crepitio straziato nel fondo.
Si autoinvita alla mensa del silenzio in cui ogni cosa germina e si riproduce.
Mantiene vergine uno spazio liquido di stupore.
Gli basta cibarsi del tempo meravigliato di uno scoccare di ali.
Lo accarezzano ali notturne di velluto faleno.
Riunisce le mani ansiose al petto.
Batte un piede e poi un altro per annunciare.
Per declamare tendendo la gola.
Si ferisce per parlarti.
E così parlare davvero. Forse di più. Puoi ascoltare?
Si vive, viviamo soprattutto di correnti sotterranee.
Non conosco altre verità più di questa.
Non spaventarti. Noi siamo il mare. I molti oceani.
Siamo scacchiera d’ordini a noi ignoti.
Rare perle che il vento soffia forte rovesciandone il forziere sul tavolo.
Il tavolo ha un fondo di erba. No, non di prato.
A volte tutto è inverno.
La distesa nivea è manto di gelo.
Tace anche il silenzio.
Non basta farsi giardiniere. Bensì violinisti. Voce. Unghie a raschiare col canto.
Ogni opera compiuta deposita una nuova perla.
Una perla.
Conto una perla.
Chiudo la mano.
Una perla in dono che ieri doveva ancora dischiudersi a un ascolto.
Oggi sorrido a una luna che graffiando ha curato.
Ho scelto nella carne ogni parola per infilarla una a una nella collana che allungo come un rosario.
Avvolta in me stessa mi sono soffermata, avvinta, interrogando. Ma il segreto custodito nemmeno disvelandolo si è violato.