Fondazione Prada presenta “Uneasy Dancer”, una mostra antologica dedicata a Betye Saar (Los Angeles, 1926). Curata da Elvira Dyangani Ose, “Betye Saar: Uneasy Dancer” è la prima esposizione in Italia dell’artista americana che riunisce più di 80 opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei creati tra il 1966 e il 2016.

“Uneasy Dancer” (danzatrice incerta) è l’espressione con cui Betye Saar definisce se stessa e il proprio lavoro che, per usare le sue parole, “segue il movimento di una spirale creativa ricorrendo ai concetti di passaggio, intersezione, morte e rinascita, nonché agli elementi sottostanti di razza e genere”. Il suo processo artistico implica “un flusso di coscienza” che esplora il misticismo rituale presente nel recupero di storie personali e di iconografie da oggetti e immagini quotidiani. Al centro della sua opera si possono individuare alcuni elementi chiave: l’interesse per il metafisico, la rappresentazione della memoria femminile e l’identità afroamericana che, grazie al suo lavoro, assumono forme e significati inediti. Come sostiene Saar, la sua arte “ha più a che fare con l’evoluzione che non con la rivoluzione, con la trasformazione delle coscienze e del modo di vedere i neri, non più attraverso immagini caricaturali o negative, ma come esseri umani”.

Il primo ricordo artistico di Betye Saar è ispirato dalla visione delle Watts Towers di Simon Rodia nel quartiere periferico di Los Angeles che frequentava assieme alla nonna negli anni Trenta. La costruzione delle torri, prolungatasi per un periodo di 33 anni, fu decisiva nel stimolare in lei la convinzione che i materiali di recupero potessero esprimere sia un contenuto spirituale che tecnologico. Dopo la laurea in design alla UCLA, Saar lavora come grafica dedicandosi all’incisione, al disegno e al collage. A partire dalla fine degli anni Sessanta, ispirata dall’artista americano Joseph Cornell, la sua sperimentazione con i materiali diventa sempre più tridimensionale e verso l’inizio degli anni Settanta inizia a creare veri e propri assemblage.

Attraverso il suo uso esperto di materiali di recupero, memorabilia personali e immagini dispregiative che richiamano storie negate o deformate, Saar sviluppa una potente critica sociale che sfida gli stereotipi razziali e sessisti radicati nella cultura americana. Negli anni Settanta, i suoi assemblaggi iniziano ad assumere dimensioni sempre maggiori, e diventano delle vere e proprie installazioni, accomunate da un approccio che unisce visioni e fedi di ogni tipo – da quelle più personali e misteriose a quelle universali – accostandole a riflessioni politiche.

Come osserva Elvira Dyangani Ose, “Saar confonde i confini tra arte e vita, tra piano fisico e metafisico. Il carattere spirituale della sua produzione non risiede solo nelle opere in cui trova espressione diretta il suo interesse per una pluralità di tradizioni culturali. Risiede soprattutto nell’operazione artistica che trasforma materiali comuni in nuove iconografie evocative, in suggestive narrazioni del reale capaci di coinvolgere intimamente l’osservatore”.

“Uneasy Dancer” espande nel suo complesso temi fondamentali della pratica di Betye Saar, tra i quali la memoria, il misticismo e la costruzione di entità socio-politiche. Questo emerge nell’opera seminale The Alpha and the Omega (2013-16), un ambiente circolare che allude al viaggio iniziatico e all’esperienza della vita umana. Questa installazione è stata concepita in occasione della mostra e include una serie di nuovi elementi che rappresentano l’idea del tutto, nella sua circolarità.

In mostra saranno presenti i suoi assemblaggi di immagini e oggetti inseriti in scatole o valigie, come Record for Hattie (1975) e Calling Card (1976), che assumono una dimensione performativa, anche se in miniatura. Altri assemblaggi, creati più recentemente e contenuti all’interno di gabbiette, come Domestic Life (2007) e Rhythm and Blues (2010), rappresentano una condizione fisica e metaforica di segregazione, ma anche di resistenza e sopravvivenza. Questi lavori includono tracce del folclore afroamericano, combinando la dimensione politica a una visione spirituale che attinge a molteplici credenze e tradizioni di origine africana, asiatica, americana ed europea.

Inoltre sarà presentata una serie di opere che utilizzano strumenti di lavoro o elementi della vita domestica, come assi per il bucato, bilance e finestre, assemblati a fotografie o manufatti d’epoca, come le opere Mystic Window for Leo (1966), The Phrenologer’s Window II (1966) e A Call to Arms (1997). Questi ultimi lavori che abbracciano vari decenni svelano, da un lato, una condizione intima e autobiografica e dall’altro alludono a una dimensione immaginativa e fantastica. L’impiego di fotografie, trattate come oggetti trovati, in lavori come Migration: Africa to America I (2006), diventa una modalità di celebrazione della bellezza e degli artifici della femminilità.

In tutta la sua carriera Saar ha portato avanti una posizione artistica che, oltre a opporsi al pensiero maschilista ed eurocentrico, sostiene una prospettiva umanistica che riconsidera le nozioni di individuo, famiglia, comunità e società.

La mostra “Betye Saar: Uneasy Dancer” sarà completata da una pubblicazione illustrata, edita dalla Fondazione Prada, che includerà i saggi della curatrice Elvira Dyangani Ose e degli studiosi Kellie Jones (Columbia University), Richard J. Powell (Duke University) e Deborah Willis (New York University).