Sono tornato a Londra di recente dopo quasi sette anni dal mio primo soggiorno. Sul volo dall’aeroporto di Bologna a Londra-Stansted pensavo che a catturare la mia attenzione sarebbero stati alcuni, in fondo non troppo banali, cambiamenti che mi sarei trovato a osservare.

Nel 2010 ero un ragazzino alle prime esperienze fuori porta e Londra una metropoli globale che stava radicalmente trasformando una cospicua porzione del suo panorama suburbano in vista dei Giochi olimpici estivi che si sarebbero tenuti due anni dopo. È proprio a due passi dal Parco Olimpico, alla stazione di scambio di Stratford, che la corriera mi scarica appena arrivato in città. Sette anni fa, mentre con un amico si andava alla ricerca dell’ennesima accomodation presso cui non ci saremmo trattenuti per più di quattro giorni; a Mile End si potevano udire distintamente le sirene della polizia: bussavamo a una porta scrostata che nessuno avrebbe mai aperto, e a dare gli unici segni di vita era l’inquietante telecamera che ci osservava dallo stipite destro dell’ingresso. Questa resta la mia percezione più nitida dell’East End di Londra, che oggi mi accoglie scintillante e rimesso a nuovo.

Tra i borghi metropolitani di Hackney e Tower Hamlets, già da qualche tempo, vecchi depositi e stabilimenti industriali dismessi sono stati riconvertiti in punti di aggregazione e spazi culturali, che sorgono a poca distanza dai canali orientali del Tamigi, costeggiati da nuovi blocchi di fabbricati residenziali. Ora, sarebbe tanto insulso quanto pedante mettersi a tracciare una genealogia della gentrification d’oltremanica, ma la storia delle trasformazioni urbanistiche londinesi è tanto intrigante quanto inscindibile dai suoi risvolti sociologici e contro-culturali. Se è vero, com’è vero, che questa città ha costantemente “cambiato faccia” dall’immediato secondo dopoguerra a oggi, decido di confrontarmi con qualcuno che si è a suo modo misurato con le sottoculture, per lo più proletarie, che attraversano questa città ormai da decenni.

Marco Sconocchia è un giovane fotografo torinese classe 1988 che vive a Londra da circa cinque anni. Mentre lo attendo al KPH pub di Ladbroke Grove a Notting Hill, alcuni soggetti seduti a un tavolo poco distante catturano la mia attenzione. Fanno un bel po’ di chiasso, e si rovesciano birra addosso. Sono madrelingua inglesi, ma parlano con un accento forte e molto ostico, persino per chi, come il sottoscritto, ha vissuto in Australia. Quando Marco arriva mi saluta e mi dice: “Guarda questi. Hai mai visto The Snatch?”. Io, che avrò visto quel film qualcosa come 36 volte, annuisco. “Sono zingari irlandesi. Il loro campo è qui vicino. Ho cercato di entrarci e fotografarli, ma mi hanno quasi bastonato e sono scappato”. Prova empatia superata a pieni voti.

In questi anni, oltre al talento, Marco ha sviluppato un’ottima capacità di networking: ha pubblicato le sue foto su diverse testate online tra cui Vice, Il Fatto, Witness Journal, Artribune e, soprattutto, TPI. Nel suo lavoro ha spesso ricercato la marginalità, le periferie fisiche e sociali, le rughe della working-class, fornendo una testimonianza diretta di come e dove sopravvivono, nel secolo dell’omologazione, il proletariato urbano e le sottoculture underground che popolano il multiverso londinese. È proprio sull’inflazionatissimo aggettivo “underground” che la nostra conversazione prende piede. “Le cose succedono, ma sottoterra – mi spiega Marco – Londra non è la città migliore per fare reportage da un punto di vista di grandi news; quelle ci sono di rado, ad esempio le grandi manifestazioni o la Brexit. Le cose più interessanti, più spinte, sono nascoste o sono nelle periferie, luoghi non facilmente accessibili”.

L’accento, chiaramente, finisce subito sul concetto di comunità. Alcune tra le tante comunità suburbane presenti a Londra sono state riprese da Marco nelle grigie e opprimenti cornici dei council estates, i complessi di case popolari del Regno Unito. Da qui è nato Goodbye Utopia, un affascinante reportage su Thamesmead e Aylesbury Estate, due quartieri della periferia sud-est di Londra caratterizzati da vasti panorami di case popolari, entrambi definiti da Marco “spaventevoli e distopici”.

La domanda seguente è tanto banale quanto obbligata; quella che ogni fotografo di reportage si vede consegnare, implicitamente o meno, in pressoché ogni intervista: come ha accesso un elemento esterno, per lo più straniero, in contesti come questi? La risposta è secca: il pub. “Ci entri, inizi a parlare, bevi, offri, fai vedere che sei il più ubriaco di tutti, e la gente si fida: se c’è un pub è più facile. A Thamesmead – continua Marco – c’è un pub nel centro del niente: quello è perfetto. Vanno tutti lì, è un social club, l’hanno fatto perché intorno non c’è niente. All’Aylesbury Estate, invece, non ci sono pub, infatti è più difficile e ci sono molte meno persone. Dipende anche da che tipologie di persone ci sono, o anche da quali etnie: certe sono più facilmente approcciabili, il che non significa niente, ma è così”.

Quello delle case popolari è un tema estremamente pregno di spunti in una città che, da sempre, vive in uno stato di emergenza abitativa, mutata nella forma col passare degli anni ma persistente nella sostanza. Oggi si tratta degli inaccessibili prezzi di immobili e affitti, ieri delle enormi quantità di case sfitte e del sovraffollamento dei degradati council estates che diedero vita, nel 1968, alla London Squatting Campaign (LSC), il primo grande movimento di squatting di rilevanza internazionale. Oggi, anche una pietra miliare della storia londinese quale è stato il fenomeno degli squatter sopravvive a stento e in maniera clandestina: nel settembre 2012, un atto del Parlamento britannico ha sancito, infatti, l’illegalità delle azioni di occupazione che, negli anni della contestazione, avevano fornito un tetto a centinaia di migliaia di famiglie. “Gli squat – mi spiega Marco – non sono una cosa per famiglie ora come ora, almeno qui. In Italia ci sono molte più famiglie che squattano per motivazioni reali. Qui non dico che il welfare ti assicuri ma è facile trovare una casa per una famiglia, soprattutto rispetto a un singolo o a una coppia”.

Siamo all’esterno del pub, e comincia a piovigginare. Strano. Di fronte a noi sono “parcheggiati” i carretti trainati dai cavalli dei pavees. Realizzo che anche il West End, in fondo, vive di contraddittorie stratificazioni interne, e Ladbroke Grove, stando a quanto mi spiega Marco, si può considerare la parte “più povera” di Notting Hill. “Questo council è famoso perché è, storicamente, zona di jamaicani e di inglesi della lower class. C’è una struttura vecchia di generazioni, che risale agli anni Cinquanta: ad agosto c’è la street parade, il secondo carnevale più grande al mondo dopo Rio. Qui, ad esempio, è stato più difficile gentrificare, a causa della comunità più vecchia, solida e radicata. I prezzi aumentano, ma loro resistono”.

La storia del Carnevale di Notting Hill e, in generale, dell’immigrazione caraibica in questa zona del West End rappresenta un po’ il suggello del modello di integrazione londinese che, pur non esente da episodi crudi come le rivolte di Brixton degli anni Ottanta, viene spesso preso ad esempio quando si parla di accoglienza. Marco si è, però, spinto anche oltre questa cornice relativamente placida: alcune settimane fa ha realizzato un servizio su una manifestazione anti-Islam a Birmingham, nelle Midlands, città in cui si trovavano i principali sospettati dell’attentato a Westminster. “A me piacciono le situazioni limite. Sono molto interessato alle situazioni di destra perché sono diametralmente opposte a quello che penso io, e per questo mi affascinano. A Liverpool, in giugno, ci sarà un’altra grande manifestazione dello stesso movimento”. Alla domanda “come ci sei entrato?” la risposta è sempre la stessa: “Al pub. Sono andato, ho iniziato a parlare, ho rischiato le botte, ma corro veloce”.

Mi sorge spontaneo chiedere a Marco come sia stato trovarsi in una situazione di intolleranza simile dopo aver visto coi propri occhi quella direttamente opposta, in un reportage realizzato a Belgrado sul blocco della rotta balcanica dei profughi. “A Belgrado ci sono finito perché ho visto un servizio in tv a Gazebo. Eravamo in una stazione abbandonata, non c’era polizia, e siamo entrati facilmente. Emotivamente è stato forte, ma ben più pericolosa la situazione di Birmingham”.

Cominciamo a chiacchierare di reportage di guerra, di lavoro sul campo, e Marco mi espone il suo parere su uno dei temi più sensibili in materia di fotografia documentaria. “Se vuoi fare un tipo di lavoro del genere devi cercare di farti prendere dentro il meno possibile. Non dico disaffezionarsi, l’empatia chiaramente è inevitabile, ma non capisco, ad esempio, il fotografo che diventa di colpo un volontario umanitario. Il tuo lavoro è fare le foto – continua Marco – e il rispetto lo dai con le tue foto, che possono non dico cambiare le cose, ma almeno sensibilizzare. Il fotografo fa le foto e capisce ciò che alla gente può interessare, altrimenti non farebbe questo lavoro”.

Rientrando per un altro giro al banco, chiedo a Marco in quali modi le classi popolari e le sottoculture urbane potranno trovare nuovi modi di autosostenersi e alimentarsi. Mi risponde con scanzonata fiducia: “Se c’è futuro? C’è sempre futuro per le comunità”. Come esempio tiriamo in ballo un fenomeno a cui ha cominciato a interessarsi relativamente di recente, quello della bareknuckle boxing, i combattimenti a mani nude. “Ci sono vari livelli. Ci sono quelli illegali clandestini, e quelli un po’ a metà. Quello che ho fotografato io è stato il primo evento legale della storia, e si è tenuto a Coventry. Ora ne sto cercando di totalmente illegali”. Boxeur a mani nude, teddy boys, skinheads, punk: la sopravvivenza delle sottoculture è vista con ottimismo dal mio interlocutore, nonostante luoghi storici ad esse legate come Camden Town si stiano ormai riducendo a feticci turistici di massa.

Dopo l’ultimo bicchiere, faccio a Marco un sincero in bocca al lupo, augurandogli di non farsi bastonare e di riuscire a ritrarre il festival dei viaggiatori irlandesi che si svolgerà durante la prima metà di giugno. Mi incammino verso la stazione della tube di Ladbroke Grove, maledicendo chiunque abbia deciso che la percentuale alcolica nel sidro del Regno Unito dovesse essere tanto dispari rispetto agli innocui sciroppi a cui mi ero abituato in Australia.