Il Writing (1), fin dalla sua nascita, si è sempre guadagnato la ribalta del dibattito artistico, ma negli ultimi tempi è riuscito, suo malgrado, a scalare qualche posto anche nelle pagine culturali e persino politiche. Le questioni irrisolte sono essenzialmente due: l’illegalità che sta alla base della “disciplina” e il quoziente di degrado urbano che ne consegue. L’accusa più frequente che si sentono rivolgere i protagonisti di questo variopinto emisfero è quella di vandalismo.

Per intraprendere una profonda riflessione delle pratiche e delle istanze poetiche del Writing è necessario soffermarsi su di una sequenza di questioni metodologiche. Gli obiettivi di un tale atteggiamento sono molteplici e variano dal riconoscimento di alcuni caratteri imprescindibili della disciplina alla messa in discussione del valore artistico di qualsiasi opera di un writer. Lungi da chi scrive l’intenzione di riportare il dibattito su un piano sociale o politico in cui il nodo centrale del discorso sarebbe diretto all’identificazione di un limite tra l’atto creativo e l’atto vandalico.

Piuttosto è interessante e, per certi aspetti, inevitabile notare come gli stessi protagonisti del Writing – dai cosiddetti padri fondatori fino ai più giovani esponenti – tendano a definire la loro azione e il loro movimento come una disciplina e non come una forma artistica. Questo deriva in parte dai tentativi, quasi sempre fatti a posteriori, di descrivere il Writing e di giungere ad una definizione condivisa che sia in grado di racchiudere allo stesso tempo la Storia ufficiale e la verità sulla nascita e sulla diffusione (2).

Asserire che il Writing è una disciplina, una forma espressiva, un linguaggio (3) e non un movimento o una tendenza artistica (paragonabile ad altri “ismi” del Novecento) consente un approccio terminologico inclusivo che possa inglobare quelli che oggi appaiono quasi come elementi distinti: dalla tag al throw-up fino al pezzo (4). Se è vero che spesso il percorso individuale di ogni writer riproduce il processo germinale che negli anni ’70 ha visto lo sviluppo del Writing partire proprio dalla semplice scrittura di tag, è altrettanto vero che nei successivi quarant’anni si sono aperte tantissime nuove direttrici che hanno dato vita allo straordinario panorama attuale.

Prendendo a prestito due termini dalla biologia evolutiva si potrebbe parlare nel Writing dell’esistenza di un percorso filogenetico, che va dalla comparsa dei prime segni a Philadelphia e New York agli sviluppi attuali, e di una grandissima varietà di sentieri ontogenetici, tanti quanti sono i writer, nei quali viene riprodotta la successione evolutiva. Fuori di metafora la spiegazione è molto semplice: il Writing si comporta come un seme che una volta piantato in un dato terreno nasce, cresce ed è capace di sviluppare caratteristiche peculiari che combinano i geni esistenti con l’ambiente in cui si collocano.

Estratto da Don't Call It Art! di Claudio Musso, da FRONTIER. The line of style, Damiani Editore, 2012.

Note:
(1) La decisione di utilizzare il termine Writing in luogo di Graffiti deriva dalla necessità di operare un chiarimento che sia rispettoso innanzi tutto delle intenzioni dei writer, ovvero di coloro che hanno creato questo linguaggio.
(2) Le opinioni di molti writer si trovano ora anche su Internet, ma questo libro rimane un punto di riferimento AA. VV., Style: Writing from Underground. (R)evolution of Aerosol Linguistics, Stampa Alternativa in Association with IGTimes, Terni 2008 [1996].
(3) Qui il termine linguaggio viene utilizzato con l’accezione «strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità» (per esempio in Vocabolario Treccani).
(4) Riguardo all’analisi delle pratiche del Writing si vedano Daniela Lucchetti, Writing. Storia, linguaggi, arte nei graffiti di strada, Castelvecchi, Roma 1999 o il più recente Anna Waclawek, Graffiti and Street Art, Thames & Hudson, Londra 2011.