Sembra facile dire “zucchero”! E’ una sostanza tanto usuale in ogni casa che quasi mai viene da pensare a cosa c’è “dietro” e soprattutto alla sua lunga storia che ha accompagnato gli uomini, le loro scoperte, le lotte, le tecniche, l’evoluzione dei gusti. A far conoscere lo zucchero alla nostra civiltà è stato un ufficiale di Alessandro Magno che, inviato nel IV secolo a.C. ad esplorare terre nuove, riferisce come sul mare d’Eritrea, gli Ittiofagi disponevano di “un miele non prodotto dalle api ma da una canna” e l’usavano per insaporire il grano cotto o per rendere più dolce il latte.

Sconosciuti nel nostro mondo antico di allora, in realtà, la canna e il suo dolce, erano già noti nell’Oriente lontano dove secondo i paleobotanici la pianta aveva avuto origine e, dalla Melanesia, via Pacifico, era migrata sui lidi che oggi sono della Cina e dell’India. Qui la canna aveva trovato un ambiente favorevole e tanta fu la considerazione fra gli abitanti che nella mitologia locale era considerata “generatrice degli uomini”. Si deve a certi mercanti il suo spostamento verso ovest dove, fra l’odierna Arabia e la valle del Nilo, nel VI-V secolo a.C. si parlava di una cannamelis (canna del miele) dalla quale, spremuto il midollo, si poteva raccogliere un liquido denso che, evaporando, avrebbe lasciato la sarkara, una “sabbia” - tale significa quella parola - giallastra e dolce.

I Greci trasformano sarkara in σακχρον (sàccaron) e i Romani la traducono in saccharum. Ricercatissima per gli uni e per gli altri, quella “sabbia”, acquistata dai carovanieri, giungeva ad Atene e a Roma dove avrà scarsa diffusione perché costosissima, troppo più cara del miele e meno reperibile dei fichi o del mostro d’uva concentrato - il defrutum o la sapa - per cui, siccome anche allora per la salute non si guardava al prezzo, trovava impiego in medicina per curare le malattie dei polmoni o delle vie urinarie o, addirittura, per farne un collirio. Caduto l’Impero, quando in Italia la miseria imperversava insieme alle scorribande dei barbari, figuriamoci se nell’Alto Medioevo qualcuno cercava lo zucchero del quale, pare, si dimentica l’esistenza. In quel tempo però, nella loro conquista verso ovest, gli Arabi avevano portato la coltivazione della canna in Sicilia e in Spagna ma, a Poitiers, con la batosta inferta loro da Carlo Martello, frustrati i sogni, lasciano molti segni della loro civiltà.

Sta di fatto, comunque, che di zucchero in Europa non se ne parla più fino al ritorno dei primi Crociati i quali fanno ri-scoprire questo “sale arabo”, “sale dolce” o “sale indiano” sul quale Venezia, padrona delle rotte marittime da e verso l’Oriente, mette subito gli occhi e lo include fra le spezie che stanno facendo la sua fortuna. In Sicilia, Federico II aveva incentivato la coltivazione della canna introdotta dagli Arabi, addirittura innova la lavorazione introducendo l’uso delle macine dei molini da grano e da olive per schiacciare le canne sfruttando il tempo morto della sfalsatura stagionale delle raccolte. Avrà poco seguito l’idea di Federico tarpata dalla troppa potenza di Venezia che, negli internodi dei bambù - gli albarelli, in ceramica, ne ripetono l’aspetto - dall’Oriente importava grandi quantità di quello sciroppo denso del quale incrementa il valore trovando il modo di cristallizzarlo e ne farà un business inventando il procedimento per render bianco quel “sale” altrimenti giallastro.

Quel sucharo diventerà grande fonte di reddito per la Repubblica che, gelosa, imporrà ai “rafinator de sucharo” di non esercitare il mestiere “in terre aliene” e, per maggior sicurezza, vieterà loro anche l’allontanamento dalla città. Affascina indagare quel momento con le lotte accese dai facili guadagni cui miravano i dispensatori di farmaci, fra i quali figurava lo zucchero, poco disposti a cedere l’osso alla neonata compagine dei pasticceri che da quelli arabi portati a Venezia avevano appresa l’arte avviando in proprio la produzione di dolci: su tutti il marzapane, dall’arabo mauthabán per ricordare una moneta o, come sostengono nella Repubblica, da Marci-panis, in onore del loro protettore.

Toccherà a Federico II, nel 1231, dirimere la feroce polemica fra apotecari, confectari, speciari e alchimisti stabilendo fin dove, maneggiando sucharo, ciascuno poteva spingersi senza, più di tanto, invadere il campo altrui. Troppi soldi giravano attorno al sucharo che, a pari peso, valeva quanto due libbre d’argento (900 g circa) e, da monopolista, Venezia copriva il mercato dell’Italia del nord e dell’Europa più vicina. Con quel prezzo, ovviamente, lo zucchero non era un prodotto popolare ma, esclusivo delle caste nobili o emergenti, diventava un oggetto d’ostentazione della ricchezza o del livello sociale raggiunto tanto che, più che per addolcire, per i banchetti “ufficiali” o di rappresentanza, con lo zucchero si realizzavano falso-frutti per le alzate centrotavola, i giganteschi trofei o le statue di personaggi mitologici e quant’altro suggerivano la fantasia e l’abilità dei pasticceri. Il ricordo di quei lavori rimane nelle ‘martorane’ e nelle pupaccene, che a Palermo, i “morti” portano ai bambini il due novembre anche se, quelli di oggi, ai tradizionali paladini preferiscono i nuovi idoli dall’Uomo-ragno a Maradona, da Ballotelli a Valentino Rossi.

L’influenza araba aveva fatto conoscere la canna in Spagna dove s’era timidamente coltivata in madrepatria e, documentata nel XV secolo, era stata estesa nelle Canarie. Intuito l’habitat favorevole del Nuovo Mondo, Colombo nel secondo viaggio del 1494, aveva portato rizomi della canna nelle isole dei Caraibi che, nel giro di pochi anni, diventeranno produttrici dello zucchero importato in Europa dalla flotta spagnola. All’aumento della domanda, altri europei si dedicheranno alla canna ma portoghesi, francesi e inglesi mettono fuori mercato gli spagnoli che, connotati dal deshonor del trabajo, ripiegano sul settore terziario e attrezzano le città a roccaforti sui porti preferendo lucrare sui dazi d’ormeggio e dedicarsi al commercio che rifornisce le cambuse dei galeoni. Negli entroterra nascono aziende, compaiono e si moltiplicano i proto-zuccherifici e, sterminati in vent’anni gli indigeni Arawak, si ricorre alla mano d’opera trapiantata con violenza dall’Africa che diventerà il serbatoio degli schiavi, la più grande vergogna dell’umanità nel tempo moderno.

Nel Vecchio mondo arriva zucchero che, a basso costo, inonda l’Europa e frutta ricchezze enormi animate dai traffici marittimi le cui rotte erano campo aperto dei galeoni spagnoli specialmente prima della disfatta della “Invicibile Armada” del 1588. In seguito, le rotte saranno contese dagli inglesi, gli uni e altri affiancati dai pirati e da nuovi professionisti del mare, i corsari e i bucanieri, ciascuno con ruoli diversi quanto specifici, che danno vita alla nuova epopea mitizzata da bandane, gambe di legno, bende sull’occhio, uncini-mano, coltellacci, pappagalli sulla spalla, tesori, bettole e … barili di rhum. Già, il rhum: sia quello agricolo, più grezzo, prodotto dal succo di canna, sia quello industriale ottenuto dalla melassa di zuccherificio. In cent’anni, dai primi 7-800 litri della fine del ’600, per la sola Inghilterra, a metà ’700, l’esportazione era salita a 8 milioni di litri scatenando invidie, ripicche e battaglie, accese o smorzate dalla generale imperversante corruzione. Dal 1806, conquistato il ruolo di monopolista dello zucchero caraibico - di quello veneziano non se ne parlava più - l’Inghilterra deve affrontare il “blocco napoleonico” pensato per tagliarle l’erba.

L’Imperatore non aveva forse ben considerato che, nel frattempo, in Europa, lo zucchero “inglese”, ma anche cacao, tè, caffè e tabacco erano diventati consumo usuale, per cui deve ricorrere a coprire il vuoto. Saranno le nocciole a tagliare il poco cacao rintracciabile, l’orzo tostato o la cicoria imiteranno il caffè e, da un concorso appositamente bandito, riprendendo una scoperta di due secoli prima, un banchiere – che riceverà la Legion d’Oro! - riesce a produrre zucchero dalla barbabietola, più caro di quello caraibico-inglese ma pur sempre zucchero. In meno di dieci anni la coltura si estende in Francia e nei Paesi conquistati da Napoleone mentre sorgono nuovi zuccherifici o si trasformano per la estrazione gli impianti che raffinavano quello grezzo esportato dagli inglesi.

Tutto il fervore s’arresta con la caduta di Napoleone quando l’Inghilterra, che ha i magazzini pieni dello zucchero invenduto da otto anni, inonda l’Europa a prezzi realizzo. Com’era comparsa, la barbabietola viene abbandonata lasciando spazio alle colture nuove: il mais e la canapa, su tutte. La barbabietola e il suo prodotto tornano concorrenziali quando, dagli anni ’60 dell’’800, abolita la schiavitù in America, la mano d’opera fin’allora gratuita diventa salariata quindi il prezzo dello zucchero caraibico sale tanto da non avere più spazio facile sul mercato europeo. Da allora saranno Francia, Germania e Italia a fornire zucchero al Vecchio Mondo dove appassionate ricerche agronomiche e genetiche renderanno la barbabietola capace di produrre fino a 8-9 tonnellate di zucchero su un ettaro della coltura che, in Italia, negli ultimi del ’900 occupavano non solo le pianure del nord ma anche le colline argillose delle Regioni centrali e del Sud.

Tanto fervore sarà arrestato dalle scelte politiche della Comunità europea che, nell’ultimo quarto del secolo, contingenta la produzione che in l’Italia - 2-300.000 ettari investiti e oltre 80 zuccherifici -, significava più di un milione e mezzo di tonnellate di zucchero all’anno. Dopo le decisioni della UE sono rimasti attivi solo 6 impianti per appena 500.000 tons di zucchero, che obbligano l’Italia - 25 kg/capite/anno è il consumo interno - ad importare la differenza per coprire il fabbisogno nazionale.