Nulla viene generato dalla natura senza qualche recondito motivo. C’è stato un tempo in cui questo assunto ha costituito un solidissimo principio scientifico e filosofico; la vis terapeutica di piante ed erbe officinali era fonte di grande ammirazione, ed era ampiamente condivisa la convinzione che non vi fosse alcuna malattia che non potesse essere curata con l’ausilio delle piante, nonostante molte delle loro proprietà rimanessero per lo più nascoste all’uomo. Il noto medico greco Erofilo, fondatore della scuola medica di Alessandria d’Egitto, sosteneva che alcune erbe fossero in grado di guarire semplicemente se calpestate. Una tale tesi può destare stupore se ricondotta a una figura autorevole della scienza medica di epoca ellenistica; eppure essa concentra secoli di meravigliata osservazione del potere medicinale di erbe e fiori e riporta all’antico senso di devozione per questi misteriosi e benevoli soccorritori del genere umano. Tanto che in origine molte specie botaniche furono considerate divinità, e come tali venerate e ritenute degne di preghiere e liturgie.

Altrettanto salda era la convinzione che le erbe più comuni e diffuse fossero anche quelle più solidali con la salute dell’uomo. Erbe umili, cioè più vicine all’humus, quel suolo che è anche grembo materno da cui ricevere nutrimento e forza. Da questa certezza deriva la definizione di “semplici”, mai tramontata nell’uso linguistico: per molto tempo il giardino medicinale, ricettacolo del meraviglioso potere terapeutico della natura, è stato considerato uno spazio sacro. In origine, ogni singola pianta rappresentava in se stessa un principio divino, una teofania, e secondo questa logica ogni semplice incarnava, dal punto di vista terapeutico, un’energia pura, un archetipo, un dio. Un principio attivo, diremmo oggi.

Plinio il Vecchio le chiamava “herbae surdae”, cioè silenziose, prive di fama, senza gloria. E non esitava a sottolineare come, a discapito della folle moda dilagante a Roma di procurarsi medicamenti costosissimi dai paesi esotici, i farmaci davvero efficaci se li masticassero ogni giorno a cena i poveracci. Con tono pungente, aggiungeva che sarebbe bastato raccogliere e conoscere le erbe dell’orto per trasformare la medicina nella più misera delle professioni.

Anche le più antiche liturgie religiose si erano fondate sull’utilizzo di modeste erbe autoctone. Le piante della macchia mediterranea furono certamente le prime testimoni dei riti, ed è sempre Plinio a ricordare che ai tempi della guerra di Troia si bruciavano sugli altari soltanto ramoscelli di cedro e limone. Anche l’incenso, aroma liturgico per eccellenza, non appartenne agli usi della tradizione delle origini. Molto probabilmente fu il rosmarino il suo illustre precedente: infatti, per l’intensità del suo aroma e per le virtù purificanti, era di fatto spesso utilizzato in sostituzione dell’incenso, tanto da essersi guadagnato il soprannome di “pianta dell’incenso”, nonostante fosse un arbusto comune, di facilissima reperibilità, contrariamente all’esotico e costoso incenso.

È altrettanto probabile che le prime fumigazioni fossero allestite bruciando piante quali salvia, ginepro, alloro, cipresso, mirto o timo. Anche quest’ultimo svela una vocazione simile a quella dell’incenso: nell’antica Roma, fu certamente una delle prime erbe bruciate sugli altari, nei sacrifici chiamati nephàlia, che consistevano in libagioni senza vino. Anche in questo caso è la sfera semantica del nome thýmos a svelarci le segrete corrispondenze che legano il timo alla dimensione del sacro. Thymiáo, infatti, è un verbo greco che potremmo tradurre con “ardere come profumo”, “purificare col fumo”, e thymíama circoscriveva tutto ciò che emanava fragranza, ma spesso veniva a indicare l’incenso in senso proprio.

A Roma i primi simboli dell’inviolabilità dei sacerdoti feziali furono semplici ciuffi di erba. Li definivano sàgmina, termine legato ai significati di sacer (sacro, consacrato): forse si trattava di fasci di verbena, poiché erano chiamati appunto verbenae, e il sacerdote che li portava era detto verbenarius. La verbena era considerata un’erba sacra ed era venerata per le vaste applicazioni terapeutiche che ne facevano una panacea; dal punto di vista simbolico, rientrava nella sfera archetipica di Afrodite, o Venere, della quale sembrava quasi riproporre l’anagramma del nome, e si diceva fosse un afrodisiaco, nonché l’ingrediente principe per la preparazione dei filtri d’amore. Anche la betonica godeva di una fama stupefacente: magna herbarum, cioè “grande fra le erbe”, si riteneva capace di guarire ben quarantasette diverse malattie e di curare i mali del corpo e dell’anima. La definizione di “erba dei dodici dèi” sottolineava la grande sinergia di forze che sosteneva il suo valore medicinale.

La lista delle erbe divine potrebbe allungarsi in quello che sarebbe lecito definire un breviario officinale, nel quale rientrerebbero a pieno titolo piante comuni e notissime per gli utilizzi farmaceutici ma soprattutto alimentari: basilico, prezzemolo, apio, menta, aneto. Il fronte alimentare ha costituito un altro importante terreno filosofico nella definizione del ruolo dei semplici nella salute umana: il concetto di nutrimento mistico ha affascinato i pensatori greci fin dai tempi più antichi, e ha goduto di interessanti sviluppi con la scuola pitagorica, che si allacciava a un’idea di frugalità ai limiti del digiuno, sostentata dal ricorso alle proprietà di certe herbae mirabiles. Fra queste, la malva e l’asfodelo erano ritenute formidabili per la capacità di nutrire il corpo e lo spirito, tanto che già comparivano in una massima riportata dal poeta Esiodo, secondo la quale i ricchi e i potenti non erano consapevoli di quali vantaggi vi fossero in queste due piante. Si tratta di erbe povere alle quali si ricorreva nei periodi di carestia, eppure ricchissime di principi medicinali; panacee che la natura produceva spontaneamente e che potevano essere consumate anche crude, secondo le norme di un’alimentazione primitiva.

Per i pitagorici malva e asfodelo costituivano un nutrimento di elezione, in quanto capaci di fornire un sostentamento esclusivo, completo, e di soddisfare contemporaneamente la fame e la sete. Affidarsi a una simile alimentazione significava adottare una vera e propria dieta filosofica: significava, cioè, aderire alla ricerca di un ideale di perfezione che andava ben oltre le mere necessità di sostentamento, per avvicinarsi agli dèi e allo splendore di una perduta età dell’oro.