Sono rimasto colpito e incredulo quando ho saputo della tragica morte di una paziente oncologica che aveva rifiutato le cure proposte dalla Medicina Accademica. Del resto lo sono stato in passato e ogni qualvolta sono venuto a conoscenza di vite umane perse per seguire l’illusione di miracolose cure – cosiddette alternative – fino a provare un senso di profonda amarezza e sconcerto. Questi fatti non soltanto sono una ferita aperta per tutti gli oncologi, ma una vergogna per tutta la comunità scientifica, un atto di accusa tragico e ineludibile.

La fuga verso le false promesse inaffidabili è stata favorita dall’incapacità di noi medici di vedere al di là del sintomo, dal bisogno di classificare, di definire, standardizzare, pubblicare. D’altra parte, fin dai banchi dell’Università, noi medici abbiamo imparato a vedere l’aspetto clinico del paziente, per cui non è facile proporre orientamenti culturali diversi, sicuramente per le implicazioni etiche che ciò comporterebbe, ma soprattutto per i condizionamenti nei quali i mercati hanno serrato la ricerca. Ma l’uomo di oggi ha bisogno di un diverso rapporto con il medico, di un rapporto non convenzionale, poiché la convenzionalità è rappresentata dall’attuale approccio, sicuramente non paternalistico, ma certamente privo di quelle valenze antropologiche così utili per stabilire una rapporto di fiducia con il paziente. Penso non sia saggio eludere l’enorme patrimonio esperienziale che la medicina antica, alla quale siamo tutti debitori, ci ha consegnato permettendoci di arrivare fin qui.

Nella multidottrinalità e nell’approccio analogico con cui il medico antico, con il solo aiuto della sua cultura e della sua umanità, faceva il nostro lavoro, potremmo individuare linee guida utili a sviluppare una metodologia enormemente più ricca di quella che ci ostiniamo a utilizzare. Il medico accademico interpellato da un paziente spaventato non può rispondere in modo approssimativo svalutando tutto ciò che è al di fuori dei protocolli accademici semplicemente perché non conosce altro.

Le teorie etiopatogenetiche di Hammer hanno un supporto scientifico, hanno avuto sistematiche conferme dalle tecnologie più sofisticate, soprattutto dalla pratica clinica di tutti i giorni di chi ha la pazienza e decide di usare il proprio tempo per ascoltare il paziente. Le intuizioni di Hahnemann ci hanno consentito di esplorare e di decriptare un messaggio antico e se da una parte ci sono utili perché ci offrono tutta una serie di elementi per inquadrare i pazienti che abbiamo di fronte, mi riferisco alla costituzionalistica, dall’altra hanno favorito la riattualizzazione della teoria delle microdosi già peraltro utilizzate nell’antichità e in tempi attuali dalla Scuola Cubana durante gli anni dell’embargo.

Non si deve comunque dimenticare la teoria dei Biofotoni di Popp, Direttore dell’Istituto di Fisico-Chimica dell’Università di Vienna, che confermò l’efficacia terapeutica dei farmaci frequenziali. Naturalmente non intendiamo mettere in discussione l’uso di presidi farmacologici che la ricerca ha reso disponibili, e di cui tra l’altro i nostri pazienti spesso fruiscono, nutriamo forti dubbi sul fatto che ogni sintomo debba essere sempre trattato in urgenza e che l’azione del medico si esaurisca con la sua soppressione.

A nostro avviso, al contrario, è utile accompagnare qualsiasi intervento farmacologico standardizzato, oggi sicuramente più mirato e meno aggressivo che in passato, con una forte tensione verso la ricerca del movente etiopatogenetico responsabile del disequilibrio primario del paziente, fattore imprescindibile da cui partire per qualsiasi progettualità che intenda predisporre il paziente alla guarigione e non soltanto alla cura del sintomo.

Ciò vale in particolare per le patologie cronico degenerative. Tale prassi metodologica è in uso da anni presso l’Istituto San Lorenzo in Lodi e penso costituirà sempre un paradigma su cui declinare la nostra attività medica.