Sono poche le notti che ricordo. Spazi temporali che prescindono dal sogno e dal buio. Poche le ore che mi fermo a guardare nella mia collezione di ore inutili. La notte in cui tu mi hai trasformato il fumo nella gola in parola, e la mezzanotte ha segnato l'istante in cui mi colavi dentro, immutabile. Irreversibile.

Posiziono la manopola del rubinetto al centro, appena un po’ spostata verso l’acqua calda. La tiro verso di me, lascio che l’acqua scorra e arrivi a temperatura intanto che mi spoglio. I pannelli in metacrilato del box doccia sono diventati opachi per via del calcare.
Da fuori non si vede granché l’interno.
Non più almeno.

Qui in questo posto non fanno entrare mai nessuno. Selezionano all'ingresso, una sorta di deportazione ebraica di gente magrissima verso il bancone del bar. Mi ci hanno portato perché domani Michele si sposa e quindi c'è questa legge che uno il giorno prima deve divertirsi per forza.
Mi hanno chiesto di vestirmi bene, per una volta. Ho adottato il loro metodo di adattamento all'altro, e il buttafuori mi ha fatto passare.

Entro e la temperatura dell'acqua è perfetta: me ne sto per un po’ con la faccia rivolta verso il getto; incrocio le braccia, le appoggio al muro e ci poggio la fronte su. L’acqua mi scivola sulla testa e le spalle, la schiena. In maniera quasi impercettibile la temperatura dell’acqua comincia a scendere: la caldaia non funziona molto bene, non mi sembra di ricordare abbia mai funzionato come si deve.
L’acqua diventa fredda, la odio, ma so che se resisterò qualche minuto, ritornerà calda.
Resto immobile, conto fino a venti.
Fredda.
Conto fino a cinquanta.
Fredda.

La vodka mi ha tolto il giudizio, mi sembra tutto possibile, plausibile, voglio solo raggiungere la penombra. Non mi interesso, non cerco niente, solo il posto più appartato, il dietro le quinte, il nascondiglio dei fili elettrici, il ripostiglio.
Trovo un angolo marginale, un pessimo punto di vista, faccio due passi indietro senza guardare, e mi cala addosso il sipario dell'assenza. Succhio dalla cannuccia il cocktail che non ricordavo di avere, e fisso un bozzo di giacche e borse su un divano.

Mi porto le braccia al petto, non si sta poi così male.
Allo stesso modo di prima, in una maniera così graduale che ci devi fare attenzione a capirlo, l’acqua riprende a riscaldarsi.
Penso ai cani di strada e al loro modo di essere sospettosi, al modo in cui - da fermi - spostano tutto il peso su un lato pronti allo scatto, mentre con gli occhi puntano verso il lato opposto.
Penso al fatto che la diffidenza è il modo che hanno per proteggersi, preservarsi, prima del morso.

Poi il mio braccio destro avverte un contatto, come un passaggio rapido di un animale, come un sasso lanciato contro. Mi volto e mi incroci al tuo sguardo. Ecco, io da qui scompaio, abbandono la terra. La vedo da lontano. I tuoi occhi contengono tutto. Le strade di New York che immagino, la gola del Grand Canyon, tutte le isole e tutti gli esiliati, tutte le guerre di tutte le nazioni, tutti e due i poli, i ghiacciai, l'equatore. Tutta la fame, la sete, la cattiveria dei predatori. Tutti i punti più profondi del mare. Tutti i punti più lontani dal mare.

Mi ritorna in mente un cane nero e grande a cui davo da mangiare quand’ero piccolo. Al modo in cui il mio vicino di casa lo fece sparire legandolo allo specchietto dell’auto e trascinandolo sull’asfalto chissà dove.
Alla traccia di sangue che le sue zampe scoppiate lasciarono sulla strada.
Si era fidato, non si era preservato.

Sono un pianeta piccolo, ridicolo e deserto, col suo nucleo di vodka ed il cratere profondissimo del suo spegnimento.
Ci parliamo e non so cosa ci stiamo dicendo. Muovo le labbra contro il caschetto dei tuoi capelli neri, che profumano di frutti di bosco e di fumo, accendo e spengo sigarette, ti tendo l'accendino, guardo la tua bocca rossa che si apre e chiude e la schiera dei tuoi denti bianchi.

Nel palmo della mano sinistra raccolgo un po’ di shampoo, lavo i capelli, me ne va qualche goccia negli occhi.
Bruciano anche se li ho tenuti chiusi per quasi tutto il tempo.

Dimentico i cani, li dimentico come se non ci avessi mai pensato in tutta la vita, e pure mi è chiaro che li sto dimenticando.

Sono in un punto in cui non ero prima, tra le mie ossa e le tue, lontano dal mio interno, molto più vicino al tuo, a dove tieni i respiri e i tumulti.
Usciamo fuori e non so per quale motivo. Ti cammino accanto e tu ti stringi nella giacca. Mi guardi e ti volano i capelli, piccoli tratti di penna nera che ti cancellano il contorno. La punta del tuo naso è rossa. Salgo nella tua macchina e tu guidi senza parlare, la lucina della tua sigaretta è il centro a cui mi tengo fermo per non gravitare via, per restarti accanto.

Strofino le mani sulla testa e su tutto il corpo, sul fondo della doccia si raccoglie un po’ di schiuma e non riesco più a vedermi i piedi: ci metterà un po’ prima di sparire tutta nel buco dell’acqua.
L’acqua ritorna fredda, all’improvviso.
Mi fermo e mi riappoggio con le braccia e la testa al muro, aspetto senza contare.
Questa volta l’acqua diventa ghiacciata: probabilmente la pressione della caldaia è scesa a zero.
Stringo i denti e contraggo tutti i muscoli per resistere.

Casa tua è come te, un posto in cui bisogna togliere tutto per farci stare il niente, ed io so, nel momento esatto in cui si apre la porta, che questa non è una notte, ma la notte, la prima.
Mi tolgo la giacca, ed il mio classico atteggiamento dispotico. Mi tolgo la camicia, ogni comportamento, ogni retaggio, ogni espressione che ho studiato di fronte allo specchio, ogni preconcetto. Sento l'urgenza di liberarmi di tutto, di non conoscere, di compiere questa specie di suicidio che è l'affidarsi, così, perché ti scatta il razzo del sedile eiettabile, e puoi morire o sopravvivere, ma certamente non puoi più restare fermo.

Aspetto per non so quanto tempo senza muovermi di un millimetro, mi concentro per non tremare.
Se l’acqua ritornerà calda, andrà tutto bene; se resterà fredda, invece, tutto a puttane.
Come quasi sempre.
Dopo un po’ ho l’impressione che tra le gocce fredde ce ne sia qualcuna calda; so che non è così, che il mio corpo si è solo abituato, ma faccio finta che sono sicuro stia per riscaldarsi: abbasso la manopola, chiudo il getto, esco.

E tu sei sempre più vicina, il tuo sorriso contro il mio. Sono completamente nudo, tu completamente vestita. Sorridi e mi accarezzi, ed io ti vedo atroce e meravigliosa, come l'unico giorno su un calendario, come un filo che mi tiene e che si spezza. E penso che vorrei morire per mano tua, da innocente. Sotto la tua lama perfetta, così vicina alla tenerezza. Interrogativo e insufficiente, io, anche solo per morirti accanto.

E quanto erano belli quei giorni di Settembre, col fresco sulla carne, la mattina.
Le colazioni al bar.
Le sigarette condivise sulla porta con gli sconosciuti.
Le mani in tasca.
Gli occhi puntati al sole.
Le gambe che ondeggiavano piano il corpo.
E salvarsi non era ancora un problema.
E salvarsi era ancora possibile.

Testo scritto con Gianluca Merola