È uno dei fiori più affascinanti e, come avviene spesso, il linguaggio, luogo per eccellenza del mito e dell’immaginazione, ne porta il segno: girasole, tournesol, Sonnenblume, sunflower – nomi tutti che evidenziano un'affinità essenziale con la solarità.

L’origine del mito del girasole si trova in Ovidio, nel IV libro delle Metamorfosi, in cui viene raccontata la storia della ninfa Clizia, che era perdutamente innamorata del dio Apollo. A un certo punto però il dio, innamoratosi della mortale Leucotoe, l’abbandonò e, per riuscire a conquistare la donna amata, si trasformò nella madre di lei. Entrato nella stanza dove stava tessendo con le ancelle, riuscì a rimanere solo con la fanciulla e a sedurla. Clizia, gelosissima, per vendicarsi rivelò il segreto al padre della giovane, che la punì seppellendola viva. Apollo tentò di farla resuscitare, ma il Destino si oppose, facendo nascere una pianta d'incenso sulla sua tomba.

A questo punto Apollo, perduta l'amata Leucotoe, non volle più vedere Clizia che cominciò a deperire, rifiutando di nutrirsi. Trascorse il resto dei suoi giorni seduta a terra, immobile, a osservare il dio che conduceva il carro del Sole in cielo: “Per nove giorni, senza toccare né acqua né cibo, digiuna, si nutrì solo di rugiada e di lacrime e mai si staccò da quel posto: non faceva che fissare il volto del dio che passava, seguendone il giro con lo sguardo”, racconta Ovidio. Tutto questo finché Apollo, impietosito, la trasformò in un fiore, in grado di cambiare inclinazione durante il giorno secondo lo spostamento del Sole nel cielo: il girasole appunto. E del resto, anche in questo caso, nomen-omen: il nome Clizia deriva dal greco e significa proprio “colei che si inclina”, ovvero, secondo la polisemia del verbo, “colei che si inclina, si muta e ha la dedizione verso qualcosa”.

Quindi Clizia, anche se aveva perso le sue sembianze umane, continuò ad amare Apollo come aveva fatto fino a quel momento, anzi forse di più: scrive Ovidio che “benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il suo Sole, e anche così trasformata gli serba amore”. E da Ovidio quest’immagine del girasole, assunto a modello dell’amore tanto fedele quanto infelice, passa a Eugenio Montale, che con lo pseudonimo di Clizia chiamò una delle donne protagoniste della sua produzione poetica e della sua vita, la giovane ebrea americana Irma Brandeis. Quest’ultima, studiosa di Dante, era venuta in Italia nel 1933 per approfondire i suoi studi e, trovandosi a Firenze, aveva voluto conoscere il poeta degli Ossi di seppia, allora direttore del Gabinetto Vieusseux: Eugenio Montale, appunto. Tra i due il colpo di fulmine fu immediato e da lì ebbe inizio una delle storie d’amore più celebri, e purtroppo anche più tormentate, del Novecento italiano, fatta di lontananze, ostacoli e difficoltà. Il poeta, infatti, era già sposato con Drusilla Tanzi, che lo minacciò diverse volte di suicidarsi se lui l’avesse lasciata; inoltre, molto presto Irma, che ricordiamo era di origini ebree, fu costretta a fare ritorno negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali. La relazione tra i due continuò allora per alcuni anni tramite lo scambio epistolare e i molti propositi di Montale di lasciare la moglie e trasferirsi negli Stati Uniti; propositi mai realizzati, che pian piano portarono la relazione tra i due ad affievolirsi per poi interrompersi nel 1938.

La figura di Irma Brandeis “Clizia” rimane comunque la protagonista di gran parte della produzione poetica montaliana, soprattutto delle due raccolte Le occasioni e La bufera e l’altro, in cui assume in la funzione salvifica di una nuova Beatrice: rappresenta l’unica alternativa all’esistenza del poeta sempre più imprigionato nel meccanicismo della realtà, nella quotidianità frustrante e grigia, resa più drammatica dal fascismo prima, dalla guerra e dall’irrompere della società di massa poi. E questo vale soprattutto nella poesia in cui Clizia è maggiormente protagonista, tant’è che viene anche esplicitato il suo nome: ovvero la Primavera hitleriana, composta in occasione della visita a Firenze di Hitler nel maggio del 1938 e che fa parte della raccolta La bufera e l’altro, caratterizzata proprio dalla forte influenza delle vicende storiche nella poesia. E, come è molto forte la presenza della storia, lo è anche quella del mito, spesso rielaborato allegoricamente, come avviene nel caso di Clizia.

Nella Primavera hitleriana l’intera vicenda storica viene inserita in un fortissimo contesto allegorico di matrice dantesca, come si evince anche dall’epigrafe in cui viene ripreso un verso attribuito a Dante: “Né quella ch’a veder lo sol si gira…/ Dante (?) a Giovanni Quirini”. E il riferimento al mito ovidiano di Clizia si esplicita poi all’interno del componimento con questi struggenti e bellissimi versi: “Guarda ancora in alto, Clizia, è la tua sorte, tu che il non mutato amor mutata serbi, fino a che il cieco sole che in te porti si abbàcini nell'Altro e si distrugga in Lui, per tutti”.

Passando per Dante, Montale quindi riprende il verso ovidiano “mutataque servat amorem” per adattarlo a una vicenda forte e tragica come era quella raccontata nelle Metamorfosi. La ninfa Clizia, che era rimasta fedele al suo amore nonostante tutto, diventa così tutt’uno con la donna montaliana, anche lei capace di amare senza riserve, pur tra innumerevoli problemi e difficoltà. Il mito della trasformazione di Clizia sembra il più adatto a rappresentare l’emblema della fedeltà e della permanenza della sostanza oltre la mutevolezza delle forme. E in tutto questo ci viene in mente l’immagine del girasole, sempre girato verso il suo astro prediletto, che continua a inseguire nonostante tutto. E questi sono i miracoli della letteratura e del mito: saper inglobare in pochi versi una miriade di significati e di immagini diverse, capaci di trasportare la nostra mente in luoghi e tempi altrimenti difficilmente raggiungibili.