Un grammofono diffonde la voce di Caruso. Seduto sopra una poltrona di velluto rosso issata sulla nave che percorre il rio Amazonas, dopo aver compiuto l’impossibile scalata della montagna, Fitzcarraldo, l’eroe visionario dell’omonimo film di Werner Herzog insegue il suo sogno di costruire un teatro dell’opera nel mezzo della foresta amazzonica.

Un’immagine epica che evoca in tutta la sua pienezza la parola utopia, il “non-luogo”, la “nuova isola” di cui Thomas More fu lo scopritore-creatore, e che andava ad inserirsi nella tradizione dei luoghi immaginati, delle città fantasmatiche da Aristofane a Platone per continuare poi nella seicentesca Città del Sole, nella Nuova Atlantide di Bacon fino ai mondi di Orwell, che hanno alimentato il desiderio umano di pensare l’impossibile.

Se nella nostra società occidentale l’educazione non fosse ormai la trasmissione di parametri ai quali adeguarsi per essere il più possibile sicuri ed uguali in un universo totalmente prevedibile, sono certa che le immagini del regista tedesco potrebbero essere di edificante lettura. In questo mondo che sogna ed immagina merci da possedere e rateizza la propria felicità assecondando i modelli di vita proposti dagli spot pubblicitari potrebbe essere quanto mai esaltante accorgersi che si può desiderare ciò che rompe ogni schema, ciò che non gode del consenso, che si possono mettere a rischio le proprie sicure certezze per inseguire una bellissima fata Morgana.

Credo che mai come ora andrebbero rilanciate nel gioco della vita parole come sfida, rischio, coraggio, illusione se è vero che non c’è salvezza laddove l’unico pensiero sia quello che calcola, che fissa rigidamente i confini dell’utile e dell’inutile, che dispone ogni cosa in funzione del controllo quando non del dominio. Ed è proprio questo pensiero privo di immaginario, calcolatore, che decreta il significato delle parole in rapporto alla loro corrispondenza o meno al proprio modello. E’ a causa di tale meccanismo che il visionario ideatore di mondi, colui che più di ogni altro entrava in contatto con il divino e conosceva l’invisibile e l’indicibile è andato connotandosi di troppo umani sospetti di diversità e di pericolosa devianza dalla norma.

Stiamo attraversando una fase nella quale sembra venir meno il desiderio di creare diversità, si cerca piuttosto l’adesione al gruppo, alla comunità che si fa garante di se stessa e delle proprie certezze. La cultura diviene allora strumento per plasmare punti di vista sicuri ed omogenei sul bello, sull’utile, sull’arte, sulla letteratura. Diventa regola, e così il pensiero che vive solo nell’incessante movimento, rinnega la propria natura, si fa stanziale, soggiorna intorpidito e quasi intossicato dalla prolungata mancanza di emozioni forti, di scarto dalla norma. Il gioco rischioso ed inebriante dell’utopia si va perdendo sostituito dai punti di vista condivisibili dalla maggioranza.

Eppure la cultura, per diritto etimologico, è “coltivazione” data la sua matrice nel verbo latino colere “coltivare”: è quindi incessante processo di morte e rinascita ed anche in questo tipo di “coltivazioni” va sostenuta la “libertà dei semi”. Vandana Shiva nella sua introduzione al volume intitolato Seme Sacro pubblicato nel febbraio di questo 2015 per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina, parla con grande saggezza e con grande verità dell’importanza di proteggere e difendere la varietà dei semi, la biodiversità al fine di realizzare quella che lei definisce “democrazia della Terra per il bene comune”. Anche i semi della conoscenza traggono vita e forza dalla molteplicità, dalla diversità e dal rispetto per la fantasia che in Natura è davvero sconfinata.

Nella scelta di valorizzare il prodotto più richiesto si dimentica la valenza del processo che porta alla creazione, quello che, come linfa vitale, attraversa, nascosto e segreto, il ciclo della Terra come pure l’artista, il libero pensatore; quello che trasforma intimamente, consolida l’autonomia e la consapevolezza, che non cerca approvazione né è finalizzato all’apparire o alle esigenze del mercato.

In un mondo sempre più spaventato dalla vicinanza, dalla condivisione, che si difende da ogni intromissione dell’ignoto di cui anche la morte fa drammaticamente parte, che si rifugia in una asettica convivenza tra eguali, priva di scosse che possano aprire la strada a pensieri dall’identità sconosciuta e non controllabile, il visionario è ormai sostituito dal navigatore del video, “uomo digitale e visivo” che conosce la realtà attraverso lo schermo ma che sempre meno lo possiede dal punto di vista sensoriale. L’ossequiente dipendenza dalla macchina della visione e al tempo stesso la convinzione che, per suo tramite, l’intero Universo sia raggiungibile, conoscibile e riconoscibile altera le radici stesse della comunicazione che presuppone il contatto, che si serve della gestualità della parola, della voce, del silenzio e che non esclude il tatto e gli odori.

Lontani da quel pathos che è forma di conoscenza altra rispetto a quella dell’intelletto andiamo perdendo la capacità di squarciare i limiti del tempo e dello spazio per immaginare l’utopia. “Ci siamo allontanati dal nostro patire le cose, le situazioni, le vicissitudini per guardarle distaccati dall’alto della conoscenza senza esserne toccati, all’insegna del più alto risparmio emotivo”: questa affermazione di Umberto Galimberti mi sembra rappresentare con estrema lucidità la tendenza sempre più diffusa a rifiutare il contatto multiforme, ampio, intrigante, fatto di complicità fra anima e corpo che solo tiene aperta la via per immaginare un futuro complesso, e voglio sottolineare la radice di questo aggettivo che rimanda al verbo latino complecti "abbracciare, tenere stretto a sé" proprio per evidenziare la necessità di conservare una visione del vivere emozionalmente e, direi quasi, amorosamente coinvolta.

Allora lunga vita alla lucida follia del visionario Fitzcarraldo imbrattato di fango, bagnato dall’acqua del fiume e del cielo, sferzato dal vento, pronto a sfidare le regole e il destino per un sogno di bellezza e di armonia.

Lunga vita a queste due parole preziose: visionario e utopia.

A cura di SAVE THE WORDS™