Nella cultura induista un bue, incarnazione divina, regge la Terra sulla punta di una delle sue corna: quando è stanco o disturbato dalle prosaiche attività umane e dallo scompiglio generale passa il suo fardello, la Terra appunto, da una all’altra. I terremoti, raccontava mia nonna, erano provocati dal passaggio della Terra da una delle corna del bue all’altra. Mia nonna aggiungeva anche che simili calamità si verificano soltanto quando il mondo è davvero in balia delle peccaminose attività umane e il sangue arriva alla testa.
(Yuyutsu Sharma, in La Repubblica, venerdì 1 maggio 2015, trad. di Anna Bissanti)

E’ stato, è quello che stiamo vivendo un tempo di grandi sconvolgimenti, di catastrofi naturali o provocate e di profonda sofferenza: non è guerra, ci rifiutiamo di definirla così, ma l’orrore e la violenza che vediamo scatenarsi sulla Terra ne hanno l’odore, il sentore, il volto tragico che lascia annichiliti, incapaci di comprendere, di spiegare gli eventi e soprattutto incapaci di governarli. Il Kashmir, il Libano, lo Yemen, la Siria e tanti altri Paradisi di bellezza, di ingegno umano, di arte, di sapienza antica, ed ora il Nepal con la sua cultura e la sua storia mirabili ci mandano immagini di rovine, di distruzione, di luoghi violati e la nostra memoria ne è sconvolta perché si rifiuta di accogliere queste visioni sconcertanti, di collocarle accanto alle tracce dello splendore che il nostro cuore custodisce come ricordo indelebile.

Le parole di Yuyutsu Sharma, uno dei più famosi poeti nepalesi contemporanei, ci riportano al legame mistico che un tempo univa la poesia alla profezia, alla capacità di vedere le cose attraverso uno sguardo originario, radicato nel terreno fertile della "stirpe" e originale , alimentato dalla sorgente antenata, deviante rispetto al guardare paludato e catalogante racchiuso nelle pastoie della “normalità”.

E’ questa una visione inquietante perché va oltre la semplificazione della ragione che giudica e sancisce, oltre la certezza priva di dubbi della scienza. Qui lo sguardo si sposta per tornare a vedere la Natura come via di accesso al sapere del mito, come intuizione del non visibile che conduce in quel territorio del sacro che consentiva a Francesco di parlare con tutte le creature, alla Pizia di manifestarsi in forma di balsamo odoroso per dare i suoi responsi, agli sciamani di incontrare l’innata saggezza degli animali assumendone le forme, incorpandosi in loro.

Dice la filosofia Taoista che la metafora è un modo di forgiare i pensieri: attraverso l’intuizione che sta alla base della poesia gli esseri umani assorbono almeno in parte la realtà e vengono guidati nell’affrontarne le difficoltà e le asprezze. Certo la poesia non è che una sensazione della mente ma non se ne può prescindere: è solo attraverso lo sguardo che trascende l’accadere quotidiano, solo nella visione illuminata e illuminante che squarcia il velo del prevedibile che possiamo avere accesso alle ragioni che non spiegano gli eventi, ma li “accolgono” con la “pazienza” di chi sa che solo stabilendo un nesso fra tutte le cose e tornando ad ascoltare la vita nella sua interezza e nel suo mistero si può trovare scampo all’isolamento che prova chi è colpito dalla sofferenza, allo spaesamento che è mise en abime "perdersi nell’abisso" degli eventi che ci sovrastano.

Nel momento in cui tutto si gioca su ciò che appare, sulla concretezza del fatto, del prodotto, sulle azioni risolutive, demiurgicamente richieste a non sempre identificate autorità ed istituzioni, si insinua il dubbio che gli eventi, persino quelli di portata storica, dipendano dal pensiero individuale, che siano la coscienza e la misura, il rispetto e l’equilibrio a determinare il destino degli uomini. Riaffiorano parole come consapevolezza, attenzione, scelta, non violenza, responsabilità soggettiva, e dal percorso dell’agire non è esclusa l’importanza di ricercare all’interno del proprio cuore le cause e gli effetti del nostro essere nel mondo.

Dice ancora Sharma: “I prati pieni di soffici fiori di senape sono stati letteralmente cementificati: letali essiccatoi e fornaci hanno soppiantato i campi di delizia nei quali, secondo la mitologia, un tempo c’era un lago e Indra, re degli dei, è venuto a rubare i fiori di loto dalla sua sponda”.

E’ una denuncia che apre altri scenari interpretativi e si trova il coraggio di immaginare una lettura degli accadimenti che passa dai territori dello spirito, oltre che da quelli della concreta solidarietà; si accetta di non mandare perduta neppure questa drammatica occasione per ritrovare parole preziose che sembrano essersi cancellate nel linguaggio del benessere e dell’opulenza, prima fra tutte la parola limite, l’antico confine superando il quale si incappa nel peccato di hybris, la "tracotanza" che rende ciechi, la cecità di Edipo, la presunzione che ignora ogni segno, che rifiuta il tempo trascorso in interiore homine per attingere alla norma non scritta, alla coscienza che ci rende responsabili di ciò che facciamo e pensiamo.

Sono il silenzio, l’ascolto, l’attesa che possono aiutarci ad arrenderci non per rinuncia o fatalismo, ma perché soltanto attraverso un percorso di comprensione interiore si può riconoscere il limite oltre il quale non è la causa che si va cercando ma l’accettazione dello svelamento di tutta la nostra fragilità di fronte alla potenza della Natura.

La rivelazione della colpa che chiama, come per ineluttabile necessità, il castigo, la Nemesis dei Greci, "Colei che fa le parti", fa sì che ci si senta scoperti, trascinati in una sorta di nudità che, come tutte le nudità seguite alla cacciata, si tramuta in vergogna, in disagio. Ed è lì che la mente può compiere, se lo vuole, la sua purificazione. Il pensiero messo davanti alla propria immagine specchiata, gettato nel groviglio di scomode verità può mettersi in moto, accettare la sfida di ripensarsi, di ritrovare la propria valenza etimologica di "pesare con cura".

Se è lecito affermare, come sosteneva Agnes Heller nel suo saggio su biopolitica e libertà, che noi non modifichiamo mai né la struttura esterna né quella interna della natura ma solo la comprensione che abbiamo di essa allora il pensiero si ripropone come arma straordinariamente potente e non priva di rischi. Un’azione sbagliata si può anche correggere, ma il pensiero resiste, si autoalimenta, si riproduce, si espande, non è arginabile e bisogna prendere sul serio ciò che uno dice perché la parola si nutre del pensiero, ne è espressione e se si tratta di un pensiero distruttivo prima o poi le parole si trasformeranno in azioni rovinose.

Un’indicazione preziosa per chi ha nella parola il proprio fare e si chiede quale sia il suo compito e se ce ne sia uno capace di esprimersi nella reale pratica della compassione che è riconoscimento di sé nell’esperienza dell’appartenere a un Universo nel quale siamo tutti viandanti in cerca di ospitalità, non solo quella cara agli antichi, quella dei poemi omerici, che accoglie lo straniero, che offre cibo e acqua allo sconosciuto, ma anche quella che permette alla nostra intelligenza di aprirsi a punti di vista per noi inaccettabili o incomprensibili.

Forse non ci sono parole di pace, parole consolatorie quando l’orrore invade le menti, quando la paura oscura la vista, ma la mente si ingegna a trovarle cerca di riportarle in luce perché il cuore ha bisogno di comunicare con la forza della sua umanità.

Nella lingua uzbeca il termine shoar significa "poeta" ma letteralmente la parola indica "un uomo che parla dal cuore" ed è questa lingua che permette di inoltrarsi nei territori della materia sottile, là dove, imparando a parlarla, si può contribuire ad un percorso di edificazione nel senso più vero del termine: si costruisce una "dimora" (aedes), un edificio nel quale il nostro quotidiano e il divino si ritrovano più vicini, nel quale ci sono ascolto e attesa.

In questa dimensione anche le parole diventano strumento di trasformazione, la condivisione silenziosa e discreta dei mutamenti che avvengono nelle nostre anime, le tappe di un viaggio che non ha una meta, ma ha valore di per sé, per il solo fatto che lo si compie pienamente mettendo in gioco se stessi e le proprie sicure certezze e la poesia trova allora tutta la sua forza, la sua intensità e, come scrive la mia amatissima Wysława Szymborska:

Nell’erba cresciuta sopra
le cause e gli effetti,
qualcuno deve sdraiarsi
con una spiga fra i denti
e guardare le nuvole

(da La fine e l’inizio)

Le parole salvate in questo scritto sono dedicate ai tanti che son divenuti viandanti, esuli, pellegrini, bisognosi di tutto eppure caparbi nella loro coraggiosa scelta di vivere del niente che ancora possiedono, della dignità che spetta ad ogni creatura per il solo fatto di essere venuta al mondo.

A cura di SAVE THE WORDS™