Alla Mostra di Venezia incontriamo Ivano De Matteo che difende, a ragione, la colonna sonora del film Gli equilibristi, da lui diretto, e spiega che l'ha commissionata prima di iniziare il film, in modo che l'operatore girasse le scene con la musica in cuffia. Gli piace anche precisare che non vuole servirsi della musica per creare sentimenti che già non scaturiscano dalle immagini. Gli diamo atto di grande efficacia nel descrivere, attraverso primi piani magistrali, quello che passa per la testa di Camilla, un'adolescente interpretata magistralmente da Rosabel Laurenti, al venir meno dell'affetto del padre Giulio, da un giorno all'altro, dopo che si è separato dalla moglie Elena (Barbora Bobulova).

Per il fratellino Luca, Lupo di nome, dolcissimo di fatto, e non meno bravo, il regista ha scritto altro copione. Appare più risentire della tensione e dei litigi fra babbo e mamma quando Elena scopre che il marito l'ha tradita, che dell'assenza effettiva del padre, un Valerio Mastandrea dalle molteplici capacità espressive. Nel film un tradimento, una storia occasionale, con una bella bionda, collega di lavoro, porta a una tale tensione di coppia da spingere il marito, sicuramente oppresso da grandi sensi di colpa, a farsi carico di una decisione che appare comprensibile se vista come un sacrificio da compiere per espiare. Si accenna che i due partner tante e tante volte hanno parlato del tradimento, ma questa è una moglie di quelle che non perdonano. La dignità offesa al primo posto.

Via via che il film procede, raccontando una discesa di Giulio a rotta di collo nel mondo della miseria, dalla pensioncina senza pasti alla macchina usata per dormirci. Quello che emerge è la spietatezza di un rapporto di coppia, di cui si fa fatica a capire su cosa si reggeva. Materialmente è tutto chiaro: la casa che si divide, i figli a cui in due si riesce meglio a garantire la presenza, i conti pagati con due stipendi. Ma le uniche relazioni umane di coppia che emergono sono quelle del marito: i suoi rapporti che rendono leggeri i rimproveri ai figli, che trasformano le arrabbiature dei colleghi in cose da riderci su, la sua capcità di prendersi una cotta dopo 14 anni di matrimonio. Lei non c'è, né come donna, né come madre.

Il messaggio sottile che passa non è tanto quello (voluto dal racconto) che i poveri non si possono permettere di divorziare, e soprattutto i padri, che sono quasi unicamente quelli che vanno via di casa. Il titolo, se non altro, andrebbe mutato in “L'equilibrista”. Passa il drammatico pensiero di cosa possa essere oggi, complice in primis la chiesa, il rapporto uomo/donna all'interno della famiglia: un rapporto di mutuo soccorso, che può precipitare nel disinteresse umano più assoluto per il partner, padre dei propri figli. Studiare in superficie questa realtà, come ha fatto il film, sottesa a tante separazioni, è una scorciatoia che permette al film di essere, a tratti, molto spassoso o molto drammatico, ma non tenta di accennare a questo problema, ben più profondo di quello economico.