Quando Dino Campana si sentiva il mondo contro, era su quella sedia, spesso. Quella sedia sulla quale tu, ora, sei seduta. Quando lui, nonostante tutto, amava il mondo, lo faceva come te, che mi streghi e mi disarmi, e ridi senza gioia, con gli occhi lucidi di tutto.
Sono in questa città per la prima volta. Mi fa ombra una di quelle giostre coi cavalli, che vedi nei film o che non vedi mai. Sono venuto qui per te.
Ho fatto un viaggio lungo, iniziato quando tu non eri ancora nata. Sono venuto a piedi. Ho camminato molti passi, dei quali ho perso il conto. Avrei voluto sapermi concentrare, per dirti, ora, quanto mi distavi quando non c'eri, quanto è poco vasto il giro del mondo. Tu stessa lo compi, due volte, con le tue vene. Lo sapevi? L'ho letto su uno di quei giornali che lasci in macchina quando mi lasci in macchina ad aspettarti. Che forse passano notti intere, ma io aspetto te, quindi fa niente.
Arriva il tuo caffè. Il cameriere ti chiama “signorina”. Come ti chiamo io quando mi incazzo. E poi mi passa subito. Ti guardo aprire la bustina dello zucchero di canna. Le dita magre, bianche. Le labbra che protendi quando ti concentri. Quella parte tra naso e bocca che ho scoperto, sempre dai giornali, chiamarsi prolabio. Tutto ciò che di nuovo so, lo so perché appartiene a te.
“Non tornavo da anni, qui a casa.” dici, mentre mescoli il caffè.
“Ti mancava?”
“No.”
“E perché mi hai invitato?”
“Perché il posto in cui uno nasce spiega molte cose.”
Cerco di capire cosa dovrei capire. Mi guardo intorno. Ritaglio dal mio immaginario la sagoma di te bambina, e la posiziono sulle strade che si irradiano dal mio occhio. Tu vicino al gelataio, tu vicino all'edicola che compri delle figurine, tu seduta ad una panchina che leggi, tu che aspetti alla fermata dell'autobus. Eppure, non sei tanto diversa da questa “te”, che mi siede accanto fuori da questo bar, questa grotta di porcellana, in cui la folla sale veloce, come nella poesia di Campana.
“Credo sia più importante il posto in cui uno cresce”, dico. Poco convinto. Ma mi convince il solo fatto che tu mi cresci dentro, come un albero di ulivo che promette secoli.
Paghiamo il conto, ci alziamo, ci camminiamo accanto. Mi sfiori col tuo cappotto nero di panno, doppio, da film francese, da caldo sotto.
Vorrei solo difendermi dal freddo, cercarti il seno. Colmare la distanza delle nostre bocche.
Ogni nostra vicinanza che nasce come è nata la prima. Con lo stesso senso di responsabilità e di gratitudine, con la stessa urgenza e unicità.
“Dove mi porti?” dico. Ed ogni frase che pronuncio mi muove spazio nel basso ventre, come se dal cuore partissero mille manine tue, che ti appartengono, per spalmare l'unguento della tua esistenza su ogni millimetro del mio corpo.
“Dove sono nata.” dici.
Camminiamo. Altri passi che si sommano a quelli che ho fatto, faccio e che farò per raggiungerti. Camminiamo e chissà a quale punto del mondo siamo sul nostro equatore fatto e rifatto, coi piedi e col sangue che ci scorre dentro. E non mi sembra di conoscere la fatica.
Poi un vicolo ed ecco un portone, l'odore delle case vecchie, troppo vecchie per essere casa tua, questa, per essere il posto che ti ha vista aprire gli occhi.
“Il numero 20 non esiste più. Quella casa è morta sotto le bombe. Ma da qui, a pochi metri da qui, più in cima, viveva Dino Campana.”
Dal modo in cui mi guardi lo capisco, che non mi dirai mai dove sei nata davvero, non mi porterai in quel posto di un quinto di secolo fa dove sei fiorita da tua madre urlando, per poi scegliere il silenzio. Ma sempre mi mostrerai quei posti in cui tu nasci quando ti scopri fragile, troppo viva come un cavo elettrico, che ti generano ricordi e fantasia, e che tu ami, come ami la poesia, e che ti sento attraverso i baci, nel tocco della lingua che sa di pioggia sempre. E infatti lì ti spingo, sul tavolo dove non sei nata, che il tuo cappotto nero si illumina di polvere, e ti cerco la bocca, mai sazio di te, e ti bacio forte, che fai fatica a rispondere al mio disperato desiderio di farmi tuono, in quella tua bocca, e piccole catene d'argento ti partono dalle labbra e mi incatenano a te, per sempre. E sono il tuo schiavo che ti tiene ferma, perché voglio sentirti fin dove tieni la paura, liberarti. Voglio salvarti. Ti tengo i polsi per farmi tuo sangue, per fare due volte il giro del mondo attraverso te. E ti faccio male, per farti scordare il vero dolore. Ti tengo tra i denti, ti stringo come la fame. E tu apri le gambe e lasci che io ti cerchi la vita. Perché io lo so, che tu non vuoi più avere un cuore, ma sono io, tutto, ora, cuore tuo, e ti pulso nel petto.
Ti spoglio e ti vesto, per non farti avere freddo, e ti cerco tra le tasche come si cerca una pistola, che ti salva la vita ma va contro la vita. E allora ti spoglio, e te lo bacio via, il freddo. Ti bacio via.
Ti entro dentro senza dolcezza, perché ho bisogno di imparare l'impazienza.
E tu mi lasci segni d'unghia sulla schiena, e io li voglio, perché mi vestono di te quando andrai via.
E mi guardi e dici tutto ciò che puoi senza voce, fai scegliere le parole alla tua gola per la mia.
E anche io ti guardo, e mi sento infinito, come se tu mi tramontassi in mano. Come se tu mi tramontassi in mano.
Io, sempre, sono nel giusto, e non temo, anche contro il mondo, perché sono in te.

Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall'invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l'erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l'azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d'intorno
La febbre de la vita
pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.

(Dino Campana)