Posso riconoscerti. Il tremore dei polsi, il flusso delle vene, il guizzo del muscolo.
Posso riconoscere il tuo grido, il suono estivo della tua voce, il colore altro nei tuoi occhi.
Quando il vento ha scosso la tua pelle, ero lì, sulla tua riva, serena.
E tu eri pieno di sussurri, una specie di garza che fa scudo agli angeli.
E ti ho toccato, una volta soltanto, con la mia mano destra che ti scrive. Affondandoti dentro, nella carne trasparente e inconsistente, fredda, di sale e di ritorni sempre uguali, sempre uguali, per farmi schiumare dentro, ancora, l'amore.
È un pomeriggio come ce ne sono tanti, le tv delle case intorno sono accese su programmi demenziali, qualcuno torna dal lavoro e mangia in piatti con crepe familiari, i bambini fanno i compiti e sognano il loro futuro da campioni. Io sono qui, a cercare i tuoi ricci nelle increspature liquide che mi mandi.
Le forme svaniscono, ora, sono solide solo le rocce che si chiamano scogli se tu le sfiori, e poi la brezza, con la zeta dolce, come mi ha insegnato la tua lingua tra le perle dei denti.
Tutte le stelle marine che ti abitano il petto, in quella città immensa che si spalanca dentro di te, senza campanili, senza strade, senza porte a cui bussare.
Un'idea della vita, sconfinata come il nostro accordo.
Non mi guardare così, abbiamo mantenuto la promessa, di ritrovarci, sempre.
Solo, tu, sei un'altra cosa.
Mi frugo nelle tasche, che tu conosci meglio di me, per afferrare con le dita i miei regali per te, in questo giorno in cui tu compi gli anni e sei alto di marea e palpitante, sei come sei sempre stato.
La chiave di casa nostra, che ho rifatto perché l'avevi persa. Non aprirà più niente, non verrai più a svegliarmi con il passo rapido della gioia, con l'odore tondo del caffè.
Ma chi se ne frega delle abitudini, delle aspettative, quando posso ritrovarti anche in capo al mondo, e viaggiarti dentro, ed essere una piccola isola banale che ti sta in viso come un neo, che fai notte o giorno con un battito di ciglia.
Ti sto raccontando tutto, ti sto ancora corteggiando. Mi muovo a quattro zampe verso di te, le mie ginocchia affondano morbide sulla tua corona di sabbia, mi muovo e ti guardo, le punte dei miei capelli ti sfiorano, si uniscono, nella tua consistenza che mi abbraccia anche le ciglia. Ti cammino dentro e mi sommergo fino al collo, mi muovo leggera come un sogno, come un bimbo nella pancia, mi libero per non annegarti dentro, con la zavorra del mio dolore legata alla caviglia. Mi faccio leggera e spingo in alto il fiato, il cuore pieno della tua esistenza, dei tuoi “cosa hai mangiato?”, dei tuoi “come è andata oggi?”, dei tuoi “stai meglio?”, “hai sonno?”, dei tuoi “vieni qui”. “Vieni qui”.
E qui, sempre, sono, ti abito, in questa città senza campanili, senza strade, senza porte a cui bussare, ad avvizzire le saline dei ricordi, a ritornare, mare, mio, ad amarti.