as·siò·ma
sostantivo maschile
Principio evidente per sé, e che perciò non ha bisogno di esser dimostrato, posto a fondamento di una teoria deduttiva.

C’è, nel senso comune degli italiani, un’idea che accomuna la gran parte dei cittadini e dei governanti, siano essi locali o nazionali. Un’idea poi magari diversamente declinata, il più delle volte semplicemente vagheggiata (dagli uni e dagli altri... ), ma saldamente ancorata nel pensiero di tutti. Talmente salda da essersi cristallizzata in terminologia amministrativa. Talmente diffusa da essere continuamente evocata come panacea dei problemi italici, dalle aule del Parlamento al bar all’angolo. Tanto che - appunto - non è più semplicemente un’idea, ma è divenuto un assioma. E in quanto tale, è posto a fondamento delle più svariate teorie socio-economiche. Per quanto in tanti sappiano bene come molte di queste siano, a dir poco, delle mere fantasie, il tema ricorre sempre nei programmi e nei proclami del ceto politico; proprio perché, essendo fondate su un così popolare assioma, il consenso (generico quanto la proposta) è assicurato. L’assioma di cui si parla, è l’union sacrée di cultura e turismo.

Il binomio è inscindibile, e dal MiBACT all’assessorato del più piccolo comune, essi viaggiano sempre insieme. Ma non come moglie e marito, bensì come la servetta e il padrone. Dalla prima, infatti, ci si attende che serva al secondo - lo alimenti, lo stimoli, lo sostenga. L’Italia è l’infelice paese in cui, periodicamente, si afferma un’idea balzana, assicurandosi per qualche decennio un’ingiustificata egemonia culturale. Chi non ricorda il richiamo craxiano all’azienda Italia?... Il messaggio che trasmetteva (consapevolmente e volutamente) era quello che la cultura aziendalista fosse più efficace di quella della macchina statale, e che quindi assumendola all’interno di questa se ne sarebbe giovata l’efficienza dello Stato. Peccato che, invece, all’ombra di quel messaggio (sbagliato) si sia invece veicolata la cultura del saccheggio dei beni, e si sia aperta la voragine dei conti pubblici.

Il nuovo dogmatico slogan è “la cultura è il petrolio dell’Italia”. Che, esattamente come il suo predecessore, è già concettualmente orrendo. Ma è proprio quest’idea dei beni culturali come merce, già in sé nefasta, ad essere alla base dell’assioma cultura/turismo. Ovviamente, non si vuole qui sostenere che le due cose siano radicalmente separate. C’è ovviamente un nesso; ma è la natura di questo rapporto, che va ripensata. Sono di questa estate le polemiche sul degrado - e sull’impatto socio-culturale - che il turismo, presunto culturale, sta avendo su Venezia. Che, nella sua condizione estrema, di città disneyworldizzata, rappresenta a un tempo il paradigma di questo modello di turismo culturale mercificato, e la sua apocalisse. Ovviamente la questione è che si considera il bene culturale (in questo caso, un’intera città) prevalentemente come merce da offrire sul mercato; e che si giustifichi ciò con l’argomentazione che serva al turismo, e che questo produca ricchezza.

In realtà, e anche a prescindere dalla estrema delicatezza del bene architettonico e paesaggistico in questione, ci troviamo di fronte a un duplice inganno. Non c’è, infatti, una diffusione della ricchezza, né tanto meno una sua entità, che possano (eventualmente) giustificare il costo sociale e culturale di questo processo di mercificazione. La distribuzione della ricchezza prodotta è infatti assolutamente piramidale, tanta per pochi e poca per tanti; mentre gli oneri di salvaguardia della merce ricadono su tutti. E, per altro verso, parlare di turismo culturale risulta, se non proprio una bestemmia, quanto meno improprio. La trasformazione della città in vetrina, quale trasmissione culturale potrà mai afferire ai suoi visitatori? Quale possibilità di conoscere e capire, vi sarà offerta? Ovviamente nessuna. Perché un vero turismo culturale è l’esatto opposto del turismo sightseeing.

La cultura, infatti, non è solo il suo prodotto materiale, stratificato nei secoli. Non è soltanto statue, palazzi, dipinti o manoscritti. È innanzitutto il rapporto tra i luoghi (e le cose) e il paesaggio umano in cui sono collocate. È una cosa viva, che vive nella relazione - ed esempio - tra una città e i suoi abitanti. Non si può chiudere in un museo, né cristallizzare nelle sole mura, prescindendo da chi ci risiede. Almeno, quando negli USA decisero di volere una città dedicata al gioco d’azzardo, crearono ex-novo Las Vegas. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di trasformare a questo scopo Boston o Philadelphia. Tanto varrebbe costruire una finta Venezia, solo per i turisti (come del resto hanno fatto i cinesi, a Dalian, nella provincia di Liaoning... ). Va tra l’altro tenuto presente che è esattamente questo, che il turista viene a cercare in Italia. Non piazza San Marco, gli Uffizi o il Colosseo, ma lo speciale rapporto che passa tra gli italiani e il loro territorio, la loro storia. Perciò, su milioni di turisti che ogni anno visitano il nostro Paese, solo una piccola parte paga un biglietto per visitare un museo o un sito archeologico.

Ma - appunto - mentre i beni culturali materiali si possono monetizzare, la cultura italiana no. Questa rimane diffusa, e - benché minacci di sgretolarsi come e più di tanti monumenti - resiste, e non può essere privatizzata. Per questo, l’assioma è sbagliato. E per questo, la moglie-serva dovrebbe divorziare dal marito-padrone. Il turismo, che pure può essere un'importante risorsa per il paese (purché non ci si culli nell’illusorio “potremmo vivere solo di... ”), andrebbe riagganciato a quelli che sono i temi più pertinenti - le infrastrutture di trasporto, innanzi tutto, il sistema dell’accoglienza e della ristorazione, l’intrattenimento... È , questo (credo), il monito che uno studioso come Tomaso Montanari continua a lanciare, inascoltato. Demercificare il patrimonio culturale. Che non significa estrarlo dal circuito economico, ma collocarvelo diversamente - con altra cura e altri scopi.

Un approccio tale, tra l’altro, da consentire la fuoriuscita dal paradosso per cui, mentre si predica la centralità della cultura, se ne tagliano i fondi più che a qualsiasi altro settore dello Stato. E che, nella duplice spinta verso la monetizzazione/privatizzazione, trova a un tempo la giustificazione e la soluzione. L’idea che sta alla base di quest’assioma sbagliato, che la cultura sia connessa prevalentemente con chi viene occasionalmente nel nostro paese, e non con chi ci vive, è ciò che va rifiutato, ribaltato. La cultura, invece, è qualcosa che riguarda innanzitutto noi. Noi cittadini, che non ne siamo soltanto fruitori - come il turista - ma anche e soprattutto protagonisti. Non è possibile pensarla senza di noi, non è possibile pensarci al di fuori di essa. Se proprio si vogliono accorpare i ministeri, si faccia dunque quello della Cultura e della Salute.