Nel 1961, al primo anno della scuola media, partecipammo attivamente e appassionatamente alle celebrazioni del primo centenario dell'Unità d'Italia. A quei tempi il passaggio dalle elementari alle medie era reso meno traumatico dall'abitudine di cantare in classe, guidati prima da un volenteroso maestro e poi da un'ancor più volenterosa insegnante di musica, l'uno e l'altra impegnati nella disperata impresa di organizzare sgangherati cori, mettendo insieme bambini che avevano ancora voci bianche e ragazzetti che, avviandosi alla pubertà, l'avevano già cambiata.

Ai canti previsti da un'educazione d'impostazione segnatamente cattolica, come Ti adoriamo ostia divina e Inni e canti sciogliamo fedeli, si affiancarono quelli patriottici come il tetro Inno di Garibaldi con le tombe che si scoprono, i morti che si levano e tutti i martiri che risorgono con la spada nel pugno, la marcetta della Bandiera di tre colori, la mesta canzone del Piave che mormorava calmo e placido con gli Austriaci alle porte. Impossibile mettere insieme i toni ancora acuti e squillanti degli uni con i timbri già bassi degli altri, per cui fu presto abbandonato il progetto dell'insegnante di tentare l'affascinante ma difficilissimo coro del Nabucco. Più cantabile e più facilmente abbordabile il nostro amatissimo Inno Nazionale, scritto come sanno tutti, da Goffredo Mameli e musicato, come molti ignorano, da Michele Novaro.

Quell’anno in tutte le scuole fu distribuito un libricino dalla copertina bianca ornata da una grossa coccarda tricolore dal titolo I grandi fatti che portarono all'Unità, diffuso dall'Ente Nazionale Biblioteche Popolari e Scolastiche: un’antologia curata dalla scrittrice Grazia Dore. Centocinquanta pagine fitte di scrittura e illustratissime con le testimonianze degli eroi del nostro Risorgimento da Berchet a Mazzini, da Carlo Cattaneo a Giuseppe Garibaldi, da Luigi Settembrini a Giuseppe Cesare Abba: tra gli eroi c'era pure Cavour. L’Unità d’Italia era allora una certezza salda e indiscutibile, che nessuno osava mettere in discussione.

Al cinema furoreggiava Viva L’Italia di Roberto Rosselini, che ci piacque tantissimo con le sue travolgenti cariche, le esplosioni fragorose, le marce estenuanti, i concitati dialoghi tra Bixio e Garibaldi. Ci entusiasmò assai più dei film guerreschi di maggiore successo del momento: più che I cannoni di Navarrone, El Cid, La guerra di Troia e I magnifici sette. Ci appassionò al punto da condizionare i nostri giochi.

Nel cortile del casermone dove abitavamo, smettemmo di scatenarci nelle furiose e quotidiane battaglie tra indiani e giubbe blu, di inseguirci nel guardie e ladri, e perfino di batterci nell'ennesima partita di pallone. Ci organizzammo invece in plotoni di rivoluzionari e garibaldini per tendere, a ogni angolo del fabbricato, imboscate a immaginari soldati austriaci, scemi e incapaci, o per arrestare, alzando barricate di biciclette e di monopattini, l'avanzata delle orde nemiche. Quell’anno riservò a noi giovanissimi collezionisti di figurine una sorpresa. Alla raccolta disneyana di turno si affiancarono le figurine dell’Unità d’Italia con lo stesso successo di quelle intramontabili dei calciatori. Dieci lire il prezzo della bustina che conteneva quattro figurine. Che ansia quando la aprivamo, con la speranza, nel vedere spuntare l’immaginetta, che non venisse fuori un doppione! Ma anche il doppione, alla fine, andava bene per il fiorentissimo mercato del baratto. Si scambiava il volto triste e bello di Carlo Alberto con quello sornione e furbo di Cavour, allo stesso modo in cui il tarchiato Sivori della Juventus veniva ceduto per il longilineo Altafini del Milan. La faccia di Santorre di Santarosa era rarissima come quella del portiere Pier Luigi Pizzaballa. Come tutte le cose belle dell’infanzia, l’album è finito tra i ricordi delle cose scomparse nel nulla.

Nel maggio del 2011, però, il Centro Studi Piemontesi di Torino ne ha pubblicato una bellissima copia anastatica. Che emozione rivedere a sessanta e più anni quelle figurine! All’epoca, presi, com’eravamo, dal pasticciare con la coccoina per incollarle, ci guardammo bene dal leggere la nota introduttiva nella quale l’editore si rivolgeva a noi ragazzi per farci sentire tutto l’orgoglio di vivere senza frontiere, dopo che i nostri nonni e i nostri bisnonni si erano eroicamente battuti e sacrificati per abbatterle. La presentazione si chiudeva con un’accorata raccomandazione. “Per queste ragioni, questo Album deve essere il vostro Album [con tanto di “a” maiuscole!]. Le illustrazioni che man mano vi applicherete, costituiranno non solo la storia d’Italia, ma anche la storia di ogni famiglia italiana”.

Atri tempi! Il Risorgimento, che noi ragazzini ricostruivamo con le figurine, appariva rigidamente diviso, in buoni e cattivi, belli e brutti, liberatori e oppressori: da una parte i buoni, garibaldini, piemontesi e francesi, dall’altra i cattivi, gli Asburgo, e i Borbone e tutti i duchi e i granduchi che dovevano accettare l’Unità d’Italia.

L’anno si chiuse con un evento straordinario. La Rai inaugurò il 4 novembre, a quei tempi festa nazionale assai importante, il secondo canale televisivo con una trasmissione in diretta dal Palazzo dello Sport dell’Eur e un imponente concerto di musiche di Raffaele Gervasio ispirate ai canti patriottici della Prima guerra mondiale. Poi ci hanno raccontato tutta un’altra storia dell’Unità d’Italia, del Risorgimento e dell’epopea garibaldina, mettendo fortemente in dubbio le certezze dell’infanzia. Poi ci hanno messo in crisi alcuni musicologi innovatori proponendo di sostituire l’Inno di Mameli, con il Va pensiero del Nabucco. Ma il coro verdiano, che per la verità contiene versi di comprensione non immediata come “ o simile di Solima ai fati”, non è riuscito a soppiantare il nostro amatissimo Inno. Oggi, infine, ci dicono, dopo averlo cantato per una vita, in piedi e con la mano sul cuore, con orgoglio ed emozione nelle scuole e negli stadi, che è rimasto provvisorio e che non è mai stato reso definitivo e stabile da un decreto. Anche Fratelli d’Italia precario? Ci mancava solo questa.