Uno dei dichiarati obiettivi della Controriforma fu l’imposizione di una disciplina morale rigorosa, sia per il clero che per i laici, che potesse stornare le critiche di lassismo e malcostume che venivano dal mondo protestante. Ma, nel mondo cattolico, ancora forti erano le sacche di resistenza a un reale e diffuso rinnovamento dei costumi, anche perché, soprattutto nei conventi e nelle alte gerarchie, era difficile rinunciare ai privilegi e alle connivenze coi potenti che avevano caratterizzato i secoli precedenti. Inoltre, una serie di precetti e normative calate dall’alto, che pretendevano di regolamentare ogni aspetto della vita quotidiana, crearono o una frustrante, supina accettazione o un’ipocrita e interessata acquiescenza.

In particolare, fu la sfera della sessualità ad essere percepita come possibile fomite di devianze, infatti, una sessualità più autonoma e consapevole si sarebbe più facilmente sottratta al potere morale dei confessori e quindi all’autorità della Chiesa stessa. Soprattutto i sacerdoti concubinari, gli adulteri e i sodomiti intesi come praticanti di rapporti anali sia omo che etero, entrarono nel mirino dei tribunali ecclesiastici e, addirittura, come avvenne nella Milano di Carlo e Federigo Borromeo, si creò una vera e propria polizia religiosa – in concorrenza con quella laica - che poteva arrestare e incarcerare. E sempre nella Milano cinquecentesca s’istituì il confessionale, in cui il penitente e il confessore s’incontravano in una sorta di bussola lignea, dove la confessione avveniva attraverso una grata bucherellata, mentre in precedenza il sacerdote, seduto su una sedia , sovrastava i penitenti inginocchiati davanti a lui, posizione che aveva favorito non pochi abusi sessuali.

Ma questo clima duramente penitenziale non bastò e non bastò neppure, come ammisero le stesse autorità ecclesiastiche, fare “abbrusciare tre o quattro persone” perché i comportamenti “libertini” diminuissero. Si arrivò, dunque, come estremo tentativo, a un controllo capillare da parte dei parroci e a un censimento di tutti i fedeli “devianti” con il pubblico ludibrio dei peccatori durante la messa domenicale e alla loro denuncia e punizione, che poteva arrivare fino al rogo.

Le donne, spesso viste dalla tradizione cattolica come elemento perturbante e portatrici di una naturalità seduttiva, divennero sorvegliate speciali e, come nel caso delle streghe, si attribuirono loro poteri demoniaci che le condussero spesso alla tortura e ad essere date alle fiamme; ma anche i conventi femminili, che in molti casi raccoglievano monacazioni forzate, furono oggetto di misure restrittive per allontanare ogni tentazione sessuale: fra l’altro, s’imposero anche qui spesse grate in sostituzione delle inferriate, e, nel caso che le monache avessero straordinariamente dovuto incontrare uomini, non avrebbero mai dovuto guardarli negli occhi, infine era vietato tenere stalle con cavalli e bovi … Nonostante questo, soprattutto nei conventi dove erano state recluse, per motivi di eredità e successione, fanciulle di alto lignaggio, si riuscivano a trovare canali per incontri sessuali, con religiosi e laici, col rischio di ricatti e spiate che, in diversi casi, arrivarono alla soppressione fisica delle persone sospette di possibili delazioni.

Caso eclatante fu quello di Gertrude, la Monaca di Monza di manzoniana memoria, al secolo Virginia, rampolla della potentissima famiglia De Leyva, che si vendicò della monacazione forzata, spadroneggiando nel convento, dove riceveva il suo amante e dove, con la sua complicità, furono costrette a fuggire o furono assassinate le consorelle che avevano scoperto la tresca. Uno scandalo così grave non poteva però essere nascosto dalle autorità ecclesiastiche e lo stesso cardinale Federigo Borromeo fece avviare ispezioni che portarono al processo della monaca licenziosa. Torturata e confessa, fu condannata ad essere murata viva in una cella di metri 1.50 per 2.50, con un solo pertugio per gli alimenti e, qui, miracolosamente, riuscì a sopravvivere per 14 anni. Scontata la terribile pena, si diede a vita devota e lo stesso Federigo Borromeo, forse anche pentito per le sofferenze atroci a cui era stata sottoposta, la citò, nelle sue opere teologiche, come esempio di provato pentimento.

Ma se a Milano, grazie anche all’autorevolezza dei Borromeo, i casi di gravi infrazioni libertine furono, in proporzione limitati, in altre parti d’Italia furono assai più numerosi e tollerati, come avvenne ad esempio in un’altra città, erede di una grande tradizione religiosa, Ravenna. Proprio a Ravenna, un documento impressionante scoperchiò il groviglio di corruzione e di complicità che imperversava anche dopo la fine del Concilio di Trento.

Ne fu involontario scopritore padre Benedetto Fiandrini, che, agli inizi dell’800, riordinando una biblioteca privata, trovò un manoscritto, risalente circa al 1570, di una monaca del convento di S. Andrea, madre Serafina Majoli, che descriveva gli intrecci amorosi, gli abusi e le rivalità odiose di alcune sue consorelle. Bisogna ricordare che, anche in piena Controriforma, in alcuni conventi, vigeva l’“allegra” consuetudine della visita di giovani aristocratici che si accompagnavano poi alle monache più piacenti e disponibili per passare con loro “devotamente” alcune ore o giornate, motivo, poi, di vanto e prestigio nobiliare e maschilista. Gli appassionati di questo “turismo sessuale” ante litteram erano chiamati “gentiluomini monachini”, e, forti della loro posizione sociale, potevano, con la connivenza delle badesse, entrare e spadroneggiare anche nei monasteri di clausura. In questo torbido contesto (e la veridicità del documento citato è confermata dall’autorità inoppugnabile di Corrado Ricci) appare la controversa figura di Felicia Rasponi.

Figlia della potentissima e per lungo tempo crudelissima famiglia ravegnana dei Rasponi, costretta per l’odio della madre a “conservarsi vergine a Dio, comecché il suo cuore fosse aliena dalla monastica professione”, bellissima e intelligentissima, fu badessa del convento di S. Andrea, diventando l’oggetto di desiderio di molti gentiluomini e intellettuali e perfino Annibal Caro, il famoso traduttore dell’Eneide, perse la testa per lei, dedicandole tre sonetti e versi come questo: “Chiaro è ‘l sol vostro e voi più chiaro il fate…”.

L’affascinante religiosa, dopo aver respinto per anni e anni tante profferte: “cominciò a provare nel seno un insolito foco… e contro ogni suo solito e volontà si compiacque… d’un nobilissimo, valorosissimo et meritevolissimo gentil huomo” che la rese succube. Ma poi: “ …le fiamme di lui che dianzi parevano sì ardenti…si videro tutte cangiate in ghiaccio… et ella fu assalita da così fiero cordoglio che in lagrime, sospiri et vigilie tutta si consumava… e ne stette più mesi in letto… ”. Felicia, dopo questa dura esperienza, condusse vita casta e morigerata consolandosi nell’erudizione letteraria e filosofica e scrivendo opere devozionali come un Dialogo dell’eccellenza della vita monacale e Della cognizione di Dio. “La fama delle patite tribolazioni, della bellezza, della dottrina e della umiltà di Felicia si sparse per tutto e, per la sua delicata e fievole complessione non potendo reggere alle continue veglie e fatiche di mente e corpo, innanzi tempo s’invecchiò… e volgendo gli anni 1579 se ne morì”.