Nessuna dea più di Afrodite evoca immagini di fresca e primaverile fragranza. Un principio olfattivo abbraccia tutto il suo universo simbolico, avvolgendolo di richiami incantatori. Ogni cosa di lei emana profumo: la persona, le vesti, le chiome; i greci chiamavano questo fenomeno “euodìa”, e ritenevano che esso fosse la rivelazione sensibile del passaggio di una divinità tra i mortali. Si dice che la natura stessa sia stata la levatrice di Afrodite e che i suoi abiti siano stati cuciti dalle Grazie e dalle Ore, tinti con i colori della primavera e intessuti di giacinti, violette, crochi, boccioli di rose, gigli e narcisi. I giardini cadevano sotto la sua protezione, e lei si compiaceva di abitare paradisi floreali. I celebri versi della poetessa Saffo incorniciano l’immagine preziosa di un giardino sacro a questa dea ispiratrice della lirica d’amore, un locus amoenus che rende omaggio ai fiori e ai frutti a lei cari e dove le foglie, con ipnotico sussurro, inducono al sonno:

... in questo tempio sacro
dov’è un bosco di meli pieno di grazia e altari odorosi d’incensi;
lì acqua fresca germoglia tra i rami
dei meli, e tutto il luogo è ombreggiato
di rose, e dalle foglie che sussurrano scende il sopore;
qui anche il prato che pascola i cavalli
fiorisce dei fiori di primavera, e gli zefiri
spirano dolci...

(Saffo, fr. 2)

L’identità più profonda di Afrodite racconta di una natura arcaica, dimenticata, fondamento dell’antica coincidenza tra aspetto umano e vegetale. Ci fu un tempo in cui questa dea fu tutt’uno con una lussureggiante essenza botanica e generativa; in seguito prese forma una biografia più vicina alla comprensione umana e Afrodite indossò vesti più comode per manifestarsi al genere umano. Si affacciò alla nuova era come dea marina, scolpita dalla spuma delle onde, ma il mito racconta che quando posò per la prima volta il piede sulla spiaggia di Cipro, la sua isola, l’arida sabbia al semplice contatto divenne feconda; da allora, al suo passaggio l’anima vitale della vegetazione sussulta e i giardini si risvegliano.

Il sentimento dell’originaria natura vegetale di Afrodite, Venere per i romani, ha lasciato traccia nel linguaggio botanico, che ha assegnato a numerosissime specie connotazioni tratte dalla sua corporeità, quasi queste germogliassero dai tratti fisici della dea, come talee stupefacenti alimentate da una linfa segreta: epifanie arboree, sante reliquie vegetali; una presenza viva della divinità impressa nel linguaggio del creato, con tutto il suo carico di generosa potenza farmaceutica. Le piante “veneree” possiedono una vis che spesso impiegano al servizio della medicina delle donne; sono erbe afrodisiache o amiche della fertilità, oppure utili agli usi cosmetici per generare bellezza ed esaltare la femminilità. L’ombelico di Venere. La scarpetta di Venere. Lo specchio di Venere. Il pettine di Venere. Il sopracciglio di Venere. Il lavacro di Venere. L’unghia di Venere. Ognuna di queste piante richiama la dolce sensualità della dea dell’amore; ne svela particolari segreti, concedendo agli sguardi indiscreti l’accesso alle forme arcaiche della sua memoria botanica.

Il capelvenere descrive in modo emblematico gli intrecci visionari che allacciano aspetto vegetale, origine mitica e potere terapeutico della pianta. È simile a una lunga chioma vaporosa, languidamente ricadente; è una felce, dunque predilige i luoghi umidi come la sua patrona, che è nata dalla spuma marina. Eppure le sue fronde sembrano asciutte a discapito dell’umidità, e lo stesso accadde alle meravigliose chiome di Afrodite, delicatamente vaporose anche mentre emergevano dalle profondità dell’Egeo. Infatti “adianto”, che è un altro nome del capelvenere, significa “pianta che non si bagna”, e in cosmesi questa pianta era considerata un toccasana per la bellezza dei capelli e utilizzata come rimedio per la calvizie.

Tuttavia, il creato non sussurra messaggi solo attraverso le segnature; anche la parola, che pure è un’invenzione dell’uomo, ha il suo ruolo significativo e incantatorio. Ecco allora che la verbena, pianta tra le più sacre dell’erbario liturgico, nasconde nella propria definizione un anagramma, seppure non perfetto, del nome di Venere; il che è sufficiente a rivelare la sua intima vocazione di erba amorosa. Non solo le spose si incoronavano con le sue fronde; non solo aveva fama di panacea e possedeva i principi medicinali utili per curare i disturbi femminili; manifestava, piuttosto, le stesse capacità intrinseche di Afrodite e come filtro d’amore, bruciata sugli altari insieme all’incenso, aveva il potere di togliere il senno agli amanti.

Infine il mirto, la pianta che più di tutte si lega all’immaginario di Afrodite, ci conduce nel cuore del dominio vegetale di questa dea. Fu proprio questa erba aromatica, regina dei litorali marini, ad assistere alla nascita della bellissima divinità e a prestarle soccorso offrendosi di coprirne le nudità. In una storiella eziologica poco conosciuta, raccontata da Ateneo di Naucrati, possiamo assistere al miracolo del ricongiungimento tra la forma umana e l’antica epifania botanica di Afrodite. Un mercante aveva acquistato a Cipro una statuetta della dea, ma nel viaggio di ritorno, durante la navigazione, l’imbarcazione era stata sorpresa da una violentissima tempesta. Gli uomini dell’equipaggio, in balia dei flutti e di un terribile mal di mare, temendo che tutto fosse perduto rivolsero una preghiera al simulacro, affidando la propria salvezza alla benevolenza della dea. La statua sembrò allora prendere vita e dal legno cominciarono a germogliare innumerevoli rametti di mirto: il profumo inebriante che si diffuse nell’aria risanò i marinai dalla debolezza dovuta alla nausea e infuse nuova speranza e coraggio fino all’esaurirsi della burrasca. Afrodite, in piena sinergia con il potere terapeutico del proprio doppio botanico, si era ricongiunta con la propria vocazione botanica e olfattiva.