A ognuno la sua follia

(Adagia, Erasmo da Rotterdam)

Che il proverbio sia espressione della saggezza popolare e che contenga sempre un insegnamento morale è quasi una tautologia, una riflessione lapalissiana, tuttavia penso che non sia inutile o sciocco farsi delle domande più precise e approfondite su quel mondo culturale-sociale, strano per dei post-moderni quali siamo, rappresentato dai proverbi. Da dove provengono? Possiedono una struttura logica specifica, propria, una coerenza interna, uno schema ritornante? Sono solo espressione di una cultura proletaria, autarchica, agricola?

Ci sono degli enigmi simili che per me sono insolubili: ad esempio come possa conservarsi così solidamente attraverso le generazioni la tradizione/consuetudine dell’insegnamento di parolacce e filastrocche/canzonette goliardiche contro gli insegnanti nelle scuole! Questa sì che è una/la vera scuola di formazione culturale che sfida i secoli e oggi inizia già dalla prima elementare! Incredibile. Forse quella goliardica/volgare è l’unica tradizione orale rimasta vivissima e appare difesa da solidissimi muri di invisibilità e di omertà/riservatezza che qualsiasi setta o lobby o religione sognerebbe invano!

Anche per le barzellette continuo a scervellarmi su come sia possibile che si diffondano così velocemente e come permangano così fedelmente all’interno dei rumore del mondo (anche se oggi sta scarseggiando quel modello di barzelletta, celebre fino agli anni 80’: “c’è un francese, un tedesco e un italiano… ”). Mentre non ho mai amato le barzellette, ho sempre apprezzato i proverbi e gli aforismi, tanto da divertirmi fin da ragazzo a inventarne alcuni, come fossero “proverbi del futuro”. Recentemente ho ripreso poi in mano gli Adagia di Erasmo da Rotterdam, e un lampo mi si è acceso: se persino un intellettuale raffinato come Erasmo ha dedicato la sua opera più corposa a proverbi e “modi di dire” ci deve essere un motivo e l’ho trovato nella loro struttura logica, ipnotica, seduttiva, ritornante, illuminante.

Il proverbio piace perché è un microracconto, una fiaba super-asciugata, in pratica un modo semplice e ipersintetico per ricostruire il mondo, per rassicurare l’instabile animo umano sul fatto che nonostante tutto il caso, il caos e le assurdità, il mondo c’è, esiste un ordine, un'armonia, un senso nelle cose, in quello che ci capita e che facciamo capitare. Il proverbio racconta (e rifonda) il mondo quale kosmos, quale sistema organico che ha delle leggi, delle armonie, delle concordanze, che è possibile, almeno in parte, riconoscere, prevedere, intuire. Se leggiamo attentamente le “morali” in rima che concludevano sempre, con poche righe incisive e anche ironico-giocose, le belle favole francesi seicentesche-settecentesche nate presso la corte di Versailles, possiamo considerarle fra le matrici/predecessori dei proverbi nella loro formulazione contadina ottocentesca.

Non solo quindi osservazioni morali che provengono dalla lavorazione dei campi e dall’attenzione al cielo e al clima, ma pure, ce lo insegna Erasmo, formule “magiche” di saggezza che derivano dall’arte del governo e della guerra, dalla semplificazione e diffusione di opere letterarie, mode culturali, frasi emblematizzate, assolutizzate, estrapolandole da testi anche nobili e raffinati. Non sempre dal basso quindi. Il proverbio spesso rivela un’origine colta derivando dalla formattazione/sintetizzazione di riflessioni ragionate in contesti spesso estremi o eccezionali. Ma che struttura logica presenta? Una struttura molteplice, sempre attrattiva a livello mentale, che ci offre degli schemi cari alle nostre dinamiche mentali fondamentali.

Anche il tipico “proverbio agricolo” che utilizza metaforicamente-simbolicamente la fenomenologia della vita dei campi per estrapolare un insegnamento emblematico è caratterizzato da un “motore logico” interno formidabile, capace di condensare la complessità in una formula semplice, e, viceversa capace di adattarsi elasticamente ed efficacemente a una serie complessa e variabile di contesti e situazioni. Questo perché ogni proverbio agricolo (ma spesso anche altri proverbi, indipendentemente dal tema di riferimento) presenta una relazionalità triangolare interna fra tre polarità, quali ad esempio le seguenti: a) osservazione fenomeni naturali b) scelta di valore/azione-reazione umana c) conclusione innovativa, sinestetica, creativa, riassuntiva.

Si tratta talvolta di fenomeni simili al sillogismo o alle “macchine logiche”, esistenti già nel medioevo. Un occhio fisso che scruta e regge il movimento dei fenomeni sembra reggere i mondi curvi dei proverbi i quali, come il globo oculare, creano orizzonti, paesaggi, percorsi, riportando la linea alla bellezza della cintura, della ghirlanda, della corona. Stessa dinamica operata dal mito greco, come ha confermato concretamente Calasso con le sue opere. Più in generale possiamo riassumere i proverbi in ben otto tipologie funzionali/formali:

  1. Proverbi basati sul principio di identità cioè su affermazioni apodittiche, positive o negative, concordanti o oppositive, come: il verme non vola, il rubinetto è il rubinetto, la sabbia non è il pepe (inventati da mio figlio, gli altri da me, per decontestualizzare culturalmente il proverbio e apprezzarne meglio la forma logica), freddo cane, caldo gatto, l’orologio è un perdente;
  2. proverbi fondati sul rapporto azione/reazione, causa/effetto, e che rinviano quindi a un superiore senso di proporzione, armonia, valore, che governa il gioco del divenire o intrinseco all’esercizio dell’esperienza quale suo schematismo latente, come: corri corri asinello che incontrerai tuo fratello, batti la vigogna e ti sembrerà una zampogna, striscia striscia vermiciattolo che il nocciolo è nel barattolo; can che abbaia non demorde, donna al volante se ne va via, han bussato al portone dove è il gallo cedrone?, la biada tiene a bada;
  3. proverbi strutturati su un parallelismo/simmetria di valore fra fenomeni/enti diversi, come: le lumache e le botte arrivano sempre in frotte, piove il cacio arriva il bacio, briciole e braciole non vengono mai per nuocere; anche in un giudizio di valore negativo: non basta l’aroma per fare Roma, fino a giungere a regole/giudizi sullo stessa attività di giudicare: annusa la struzza, poi dì che puzza;
  4. proverbi connotati da un’equivalenza semantica fra segni;
  5. proverbi segnati da una scelta di valore in tema di rapporti di forza, come: ridi ridi cavallo che vado al ballo, l’appetito la fame se lo mangia;
  6. proverbi che esprimono una legge sui tempi di cambiamento e/o una legge del desiderio che governa la dinamiche delle passioni, come: si inizia brindando e si finisce a capriole, sgomita l’anguilla che cerca la scintilla;
  7. proverbi metalinguistici che giocano con le rime e le assonanze, sfruttando al massimo livello gli aspetti ontologici e performativi della parola, come: Agnese piange e ride un mese, Filomena la mena; riguarda il rabarbaro e vedi il barbaro, barbazio barbagianni, il cielo cela;
  8. proverbi con una struttura logica normativa, legislativa, del tipo se… allora, come: se cavalchi lo gnù allora cavalchi anche il rinoceronte, se sputi sputerai, se il gallo cova l’orso canta, se piange l’occhio ride il ginocchio.

I proverbi sono macchine trasformative, ricombinatorie e presentano forti analogie anche con il fenomeno della consuetudine, non solo perché sono consuetudini culturali, in quanto fenomeni tralatizi, ma pure, più profondamente, perché mostrano sempre nella loro genesi le due componenti strutturali di ogni consuetudine:

a) la reiterazione;
b) la convinzione di un “dover essere”, cioè una “chiamata all’essere” assiologicamente imperativa, che valorizza e conferma;
c) il proverbio quindi condivide con la scienza sperimentale e con il diritto la dimensione dell’osservazione ripetuta e ragionata e la formulazione di una regola di valore. Dal punto di vista morale abbiamo poi due grandi famiglie di proverbi: quelli pessimisti, i più antichi, (ultimi echi della dottrina del decadimento delle epoche presente nel mito greco) per i quali il mondo è in continuo disfacimento, e i proverbi più ottimistici, derivanti dalla cultura cristiana (da cui deriva l’idea di progresso e l’ottimismo, entità del tutto sconosciute da Atene e Roma antica), dove si trova la bellezza di una speranza semplice, che incoraggiano/ricordano che ogni anno, dopo l’inverno, ritorna la primavera, e ci parlano di un cielo che non è che la continuazione della terra e la terra un’estensione del cielo.

I proverbi citati nell'articolo sono stati ideati da G. M. Prati e R.M. Prati