Romeo de Maio nel suo eruditissimo libro Pulcinella, il Filosofo che fu chiamato pazzo, approfondisce e compendia l’iconografia e la letteratura plurisecolare sulla celebre maschera, ma la sua analisi resta a un livello morfologico, fenomenico. Giuseppe Sermonti invece in Alchimia della fiaba accenna sinteticamente ad Arlecchino, figura complementare a Pulcinella, di cui è amico, e lo fa ragionando in una prospettiva di “iconologia spirituale”, cioè mirando all’essenza diacronica, ai parallelismi di senso, cercando di risalire alle origini prime, alle più antiche matrici, anche plurime, degli immaginari che in Arlecchino si condensano e sedimentano.

Ne deriva un Pulcinella malinconico, meditativo, e un Arlecchino solare, selvaggio, mistico, erede di Giovanni Battista, dell’Homo selvaticus e delle figure alla “Hans lo scemo/saggio” delle fiabe. Entrambi presentano alcuni tratti precisi e inconfondibili: la fluidità elastica nell’adattarsi alle situazioni e nell’ingegno acuto e mobile, l’apparenza sciocca e selvatica che cela una semplice ma profonda saggezza, la panica pigrizia, la versatilità nelle espressioni e nelle arti: musica, danza, eloquio, e una generale misteriosa ambivalenza. Questo perché entrambi derivano dall’immaginario e dalle gesta mistiche di Hermes il quale, nella nuova epoca cristiana, sopravvive, per ciò che non resta immediatamente assorbito nella figura di Cristo (specialmente il Cristo di Emmaus) e di Mosè/Thot, proprio in quella coppia di nuovi Dioscuri che sono Arlecchino/Pulcinella.

Arlecchino incarna il lato solare e iridico di Hermes, allegro e infantile, veloce e invincibile, mentre Pulcinella ne esprime le dimensioni lunari e crepuscolari, e si mostra infatti più lento e saturnino, più solitario e enigmatico. Entrambi appaiono di natura profondamente e pienamente mercuriale. Entrambi mostrano la maschera nera, Hermes è figlio della Notte, ed entrambi infine brandiscono la verga, attributo di Hermes. Una verga che all’origine anche per Hermes si rivelava singola, da araldo sacro, come il bastone di Mosè, al massimo unita alle bende da psicopompo, bianche come Pulcinella. Verga di giustizia, rivelativa, animata, quasi collodiana. In se stessa già serpentina. Mentre Arlecchino non sembra presentare grandi problemi di decrittazione, Pulcinella appare nascondere ancora zone grigie, non indagate. Appare più sfuggente, più sfingico.

Romeo de Maio non ha messo in adeguato rilievo il tratto semantico essenziale dell’iconografia di Pulcinella (cioè la maschera nera/tunica bianca, propria dei folli tanto che Erode l’attribuisce empiamente a Gesù, e il berretto frigio) ma gli va alcune delle immagini del suo libro è necessario ancora soffermarsi. Prima di questo ricordiamo l’origine mitraica del berretto frigio, a sua volta molto più occidentale e più antico di quanto pensiamo in quanto già lo indossa Odisseo e i Dioscuri. Ma ancor prima il copricapo richiama l’Uovo cosmico spezzato all’origine dell’universo, immagine presente anche in Egitto, cioè il Chaos da cui scaturiscono Urano e Gea. Tiepolo, che Calasso ci restituisce nella sua sapienza esoterica in Rosa Tiepolo, dedica più di cento stupendi disegni alla mitologia, nuova e antica, di Pulcinella, mostrandolo anche nascituro dall’Uovo come Castore e Polluce, come Calimero!

Ma i copricapi di Pulcinella sono variabili. In alcune raffigurazioni il suo berretto sembra simile a quello dei Dervisci (nel Casotto dei saltimbanchi e nel Pulcinella innamorato sempre a Cà Rezzonico), in altre ricorda una delle versioni del capricapo di Hermes, come nell’olio Pulcinella e i Borboni di Napoli, attribuito a Giuseppe Cammarano (Collezione Giuliana Gargiulo) oppure sembra evocare le pietre coniche degli antichi anfiteatri, a loro volta evocatrici della Pietra serpentina di Delfi, cioè l’Agadir che vomitò Saturno, come si veda nell’incisione di Jacques De Gejin e in una porcellana di Capodimonte del 1741/52 del Metropolitan di New York. Questa porcellana è importante anche perché ci mostra un Pulcinella ternario in una processione che lo vede munito di iniziatica frusta, a cavallo di un asino e suonante una tromba.

I primi due aspetti appaiono chiaramente dionisiaci, mentre il terzo sembra una superfetazione mistica cristiana. Ma il dionisismo di Pulcinella non è allegro come quello di Arlecchino, l’Hermes/Dioniso della nascita e del trionfo, ma si rivela chiaroscurale, silenico, asinino. Alla fine del suo spettacolo Ehi tu! La volta che il Fulesta incontrò Pulcinella in Persia, Sergio Diotti ricorda il parallelismo fra Pulcinella e i burattini persiani, nell’uso della pivetta (la misterica lingua degli uccelli di cui parla, fra gli altri, Fulcanelli) e nel copricapo orientaleggiante, a sua volta ereditato dai luogotenenti imperiali di Bisanzio, da cui il berretto del Doge di Venezia. La lingua degli uccelli di Melampo che capiva il discorrere dei due avvoltoi e grazie alla loro memoria guarì Ificle dal suo trauma? La lingua delle fate che è il greco secondo i bretoni, discendenti dei Troiani?

L’esoterismo di Pulcinella sopravvive persino nel borghese e banalizzato Pierrot dove anche la malinconia ha già perso l’antica sapienza, che forse solo Durer ancora capì, per farsi mero stato d’animo allegorico. Lo dimostra una celebre, breve e enigmatica filastrocca francese che, tradotta letteralmente, recita: “Oh chiaro della luna, mio amico Pierrot, imprestami una piuma, per scrivere una lettera, ma la candela è morta, non c’è più fuoco, aprimi la porta, per amore di Dio”. Sermonti ha indicato l’analogia fra Pierrot e il sapiente e bizzarro Gianni delle favole. Pierrot diventa poi, nell’iconografia di massa, melanconico, ma questo aspetto non è che un corretto manifestarsi del carisma di Saturno, presente anche nell’Homo selvaticus. Carisma di sapienza e di iniziazione.

Pierrot è, come Pulcinella l’araldo danzante e recumbente di Eleusi, l’alchimista che scende nell’Ade e che veglia sulla cottura straziante della materia. Bianco e nero, è lunatico, argento e ombra, fluido e plumbeo, schiumoso e vaporante. Danza e riposa meditativo. Al plenilunio si deve scrivere una lettera, anch’essa bianca e nera, doppio del Cielo, da incidere e disporre in sequenza. Il fuoco è finito, l’Opera è compiuta. Pierrot è colui che regge le porte di Giano, le porte sacre della Sapienza. Il guardiano. Pierrot dona le penne, come il pavone, ispira il vaticinio, permette di fissare i tempi della cottura. Consumato tutto l’olocausto del Fuoco, si deve aprire la porta della Luce divina. E la parola d’ordine è sempre il fuoco superiore e unico: l’Amore di Dio.

L’inquietudine di chi parla ricorda l’inquietudine del Maestro che aguzza la penna, di Gerard Dou, mentre la clessidra è a metà della sua corsa, come nella Melancolia di Durer. A casa di mia madre è appeso alla parete un Pierrot donna il cui sguardo è l’unica cosa che mi abbia mai turbato. Tornando al nostro amico biancovestito, colore della morte, mi sono sempre chiesto infine il perché di quelle inquietanti moltiplicazioni di Pulcinella presenti in molte raffigurazioni, come in Pulcinella che dipinge il sacrificio di Ifigenìa, in Pulcinella e l’aquila (citazione del ratto di Ganimede), e nel Plotone di esecuzione, tutti di Tiepolo, come nel Concerto dei Pulcinella di Alessandro Magnasco, (1730-1735, Columbia, Musem of Art), fatto mai accaduto per altre maschere e tantomeno per l’unico Arlecchino.

Ho trovato una possibile soluzione in un'intuizione che mi è venuta improvvisa contemplando il bellissimo affresco di Pulcinella, del XVIII secolo, presente nell’atrio del castello ceco di Krumlov. Il nostro amico vi è raffigurato con una grandiosa gobba sotto il vestito bianco, e con la rituale maschera nera che qui, sotto una cuffia bianca, mostra un naso e un mento che quasi circolarmente si toccano. La comprensione è immediata e gioiosa: la luna crescente e la luna calante, agli antipodi. Pulcinella è la Luna, ed Hermes compie la sua prima impresa alla luce di una Luna piena. Per questo Pulcinella non può essere che mutevole e plurale.