Come nasce un poeta?

In origine è seme, come per qualsiasi altro vivente. L’involucro poeta ha origine da uno spermatozoo, trattandosi di essere umano. Quale adattamento alla realtà rende possibile l’evolversi di questo specifico essere umano in un poeta piuttosto che in un burocrate? Sarebbe un’ingenua riduzione pensare si tratti di formazione. Sono convinto esista una componente innata nell’anima di un poeta, come se discendesse da un ceppo d’uomini dotati di vista più penetrante e anima molle e malleabile.

Il poeta è un bambino che siede muto all’ombra dell’eucalipto del cortile della scuola mentre i coetanei sudano dietro al pallone. Non piange per il cibo. La poesia è però un lavoro forzato, sono gli adulti a costringere il bambino alla catena della visione. Una madre incapace di lasciare che l’infanzia sia lieve, un maestro che investe l’allievo del pesante fardello di farsi vate. Il poeta non ha bisogno di leggere poesia, la ha dentro di sé. Tuttavia esiste una preparazione meticolosa e pratica che conduce il giovane essere umano a creare visioni emozionanti con le parole e finanche parole nuove.

Qual era l’occupazione del poeta quando non esisteva il linguaggio? La risposta semplice a questa domanda difficile solo in apparenza è “creava il linguaggio”. Nessuno che non fosse poeta avrebbe avuto l’esigenza di creare una realtà parallela a quella tangibile e visibile ed edibile trasformandola in parole. Le parole sono utili solo in apparenza. La loro funzione primaria è stabilire dinamiche estetiche e svolgere il ruolo di funzionarie d’amore, sono serve della conservazione della specie. Almeno quanto quelle sostanze odorose che entrano nel naso di uomini e donne accecandoli e portandoli a seguire un individuo ai confini del mondo.

In epoca moderna esistono rari coltivatori di poeti. La sorte mi ha posto in fronte a uno di essi quando abitavo i banchi del Liceo, distratto dalle letture più disparate coglievo quell’occasione di frequentare i coetanei di carattere indefiniti, un’umanità varia e ad alto potenziale. Prestavo attenzione quando Francesco Improta parlava di poesia. Si trattava di un uomo d’ampie vedute, fine intellettuale, edonista ed esteta. Lettore onnivoro esperto delle materie più disparate, dall’enogastronomia al cinema. Proveniva dalla metropoli e non aveva perso nel suo forzoso esilio in provincia lo spolvero da fuoriclasse dell’intellettuale cittadino. Non ci afflisse con decine di nozioni e precetti, assolveva al suo ruolo istituzionale, svolgeva con metodica perizia il compito d’insegnarci la storia della letteratura italiana e quella latina. Ma apprezzava chi come me approfittava delle molte ore trascorse al banco per leggere ciò che l’interesse e la curiosità del momento gli suggeriva, conscio che avrebbe comunque sfruttato gli appunti di un amico per recuperare le nozioni del programma scolastico.

I momenti imperdibili e irripetibili, la magia che avveniva in quell’aula, erano quelli in cui Ciccio si dilungava nel dono di esperienze, precetti di vita, digressioni su questo o quell’argomento, mai privi d’interesse o pregnanza culturale al fine del bagaglio formativo di un umanista. In effetti non furono molti i precetti a partire dai quali mi spinse sul sentiero che forgiò il mio gusto poetico e decretò la mia vocazione di pittore verbale. Il prof. Improta ha curato con amore e solerzia quel giardino germogliante e fornito strumenti artigianali con decennale esperienza e precisione. Lo ha fatto per anni in maniera massiva, proprio nell’intento di aiutare a crescere rigogliose quante più piante possibili. Un latifondista della bellezza in un tempo di stagioni fredde e sfortunate, delle grandinate della mediocrità che distruggevano il raccolto a ogni pausa estiva.

Oggi riconosco che il lavoro meticoloso e mai invasivo di quell’uomo è oro. Forse gli artisti veri che hanno avuto la fortuna di formarsi alla sua scuola non sono moltissimi, per una serie di motivi che sono tanto palesi quanto noiosi da specificare. Ma ciò che conta è l’infaticabile, inarrestabile, impavida attitudine di quest’uomo, apparentemente pessimista, a lottare perché la bellezza non si estingua, perché il meglio dell’essere umano sia procrastinato e tramandato, affinché le prossime generazioni continuino a pensare che un mondo bello e libero è possibile.

Le reti utilizzate da Ciccio Improta per la pesca al poeta erano uno strumento industriale, si trattava di pesca a strascico. Pochi precetti inconfondibili che mettessero il giovane germoglio di poeta in condizione di acquisire la strumentazione necessaria a coltivare il proprio orto d’immagini, a beneficio di sé stesso e delle anime affini che si fossero imbattute nelle pagine poste a maturare sugli alberi della creatività. Nonostante oggi siano passati quasi vent’anni dai giorni in cui acquisivo quei precetti e ne facevo tesoro, nonostante innumerevoli traslochi abbiano fagocitato i quaderni, gli appunti e finanche la prima produzione, so di aver impostato il mio frutteto letterario proprio a partire da quelle poche, preziosissime indicazioni.

“Tenete il dizionario della lingua italiana sul comodino e non smettete mai di studiarlo”. A partire dalla “a” fino ad arrivare alla “z”. Il poeta deve necessariamente disporre di una capacità lessicale smisurata, ai limiti della completezza e deve aggiornarsi se l’Accademia della Crusca stabilisce di lanciare un tiro mancino e introdurre il neologismo. Ammesso che il poeta in questione stabilisca di riconoscere una qualche autorità al di sopra della sacralità delle proprie ispirazione e creatività.La pratica fondamentale che Franco Improta impose a noi studenti e vi si sottoposero indifferentemente i futuri infermieri, avvocati, commercialisti, ricercatori, operatori di call center, agenti immobiliari, commercianti, fu quella di compitare una vera e propria rubrica col nome e la descrizione di tutto l’arsenale delle figure retoriche. “Allitterazione: ripetizione di suoni (vocali o consonanti) all’interno o all’inizio di due o più parole consecutive” e relativi esempi. Ogni aspirante poeta fra gli allievi disponeva così di un breviario cui ispirarsi per impreziosire e dare forma poetica alla stesura delle proprie riflessioni di adolescente… non so quanti se ne avvalsero.

Ma furono tre i precetti che più di altri contribuirono a forgiare il mio gusto poetico e successivamente il mio effettivo poetare: “La Poesia procede attraverso la creazione di immagini volte a scaturire l’emozione”, “La Poesia è innanzitutto questione di stile, infinito lavoro d’elezione lessicale che non deve lasciare spazio, giunti a compimento, a che la parola posata sulla carta non sia quella giusta, insostituibile”. Ma è nell’ultimo precetto che trovai l’illuminazione e il motto che mi spinge a imprigionare i demoni scaricati nell’anima dall’ispirazione su carta secondo il mio modo e non in un altro: “La Poesia non dice, la Poesia allude”.

Sebbene ritengo che un certo integralismo nel comprendere, interpretare e porre in uso quest’ultimo precetto sia costato parecchio in termini di ermetismo a tutta la mia prima produzione, devo dire che una volta affievolite le passioni turbolente della gioventù, ritrovata la stabilità emotiva, una prospettiva intellettuale e creativa più matura, oggi posso gioire delle mie creazioni senza troppe remore e si trattasse pure di un esecrabile e condannabile onanismo estetico, mi riterrei comunque sereno e in pace con me stesso, per usare una similitudine (paragone introdotto da elementi comparativi quali come, simile a, più di, ecc.) come un contadino che rientri a casa all’imbrunire, nella consapevolezza d’aver dato amore e sudore alla terra e fiducioso ch’ella lo ripagherà col pane.

Nel tempo in cui Franco Improta mi iniziava ai misteri della poesia, introducendomi nel santuario delle creature elette che passano per questa vita terrena percorrendo i loro passi sui selciati ben battuti dei malati d’amore, dei fedeli d’amore, dei fedeli e basta, degli esploratori di dimore divine, dei vati e dei soldati tormentati, di anime errabonde e tormentate, non ero che un pivello malleabile.

Oggi dispongo di una mia poetica, di convinzioni passibili di modifica nel confronto, intenti creativi, ambizioni; per esempio a proposito della lingua, la grande protagonista della poesia. Ritengo che un uomo mediamente colto e consapevole, che si sia dedicato alla letteratura sebbene per un breve periodo della propria esistenza, non possa aver fatto a meno di rilevare che assumere una posizione anomalista sia l’unica scelta plausibile e sensata. La lingua è in continua evoluzione, come qualsiasi altro strumento umano subisce adattamenti e muta in funzione delle necessità d’uso.

Questo il motivo per cui sebbene il dizionario continui a riposare sul mio comodino, ho smesso di sentirmi in colpa quando non lo sfrutto per arricchire il mio lessico. Le migliaia di parole di cui dispongo per comporre, in virtù dello studio attento di centinaia di libri, mi mettono in condizione di pensare che in quanto poeta vivo, il servigio più utile che possa compiere per la setta dei poeti e per gli uomini in genere, sia quello di creare parole che ancora non sono, utili a esprimere l’imperscrutabile e l’indefinito. Ritengo di poter poetare in maniera esteticamente apprezzabile a partire dal mio arsenale lessicale e aspiro ad ammodernare la lingua, sono un appassionato esploratore del limbo affascinante del neologismo.

Ma bisogna porre un distinguo: il lettore noterà presto che rifuggo le invasioni barbariche della lingua coloniale come la peste, per me possono entrare nell’uso comune tutti gli inglesismi del mondo e la fottuta Crusca può inserirli in dizionario fino alla notte dei tempi: per ragioni politiche finché avrò respiro da tenere in mano la penna, dove non arriverà la mia conoscenza scolastica del marziale idioma, cercherò traduzione. Per quanto riguarda le figure retoriche vale un po’ il medesimo principio… sono un poeta ingiusto e mi concedo dei favoritismi: c’è tutto un insieme di figure che adopero con perizia e amore, sovente e in un sentimento estetico corrisposto. Altre le vivo come ragnatele, retaggio di un passato glorioso ch’è passato. Figure retoriche che renderebbero il componimento pomposo e velleitario, lo ammanterebbero d’un velo d’antiche vestigia e parrebbero uno scimmiottare irrispettoso la sensibilità di venerabile sabbia.

Mi riferisco per esempio alla Prosopopea, che ho osato scomodare in un solo componimento in vita, non senza tentare d’alleggerire l’effetto dando seguito immediatamente a un ardito doppio Enjambement, figura cui sono particolarmente affezionato, almeno quanto al Chiasmo e all’Anafora. Opero una scelta di snellimento, di riduzione all’essenziale. Abbandono le antiche vestigia ermetiche per parlare al petto dell’uomo qualunque, in attesa di portare il mio contributo all’innovazione della lingua italiana, che presto o tardi non somiglierà più a quella appena adoperata per esprimere il mio pensiero sulla Poesia.