Lo storico dell’arte costituisce quello che è il suo “materiale” mediante un processo intuitivo estetico di ri-creazione, che comprende la percezione e la valutazione della qualità, esattamente come la persona comune quando guarda un quadro o ascolta una sinfonia.

(Erwin Panofsky, La storia dell’arte quale disciplina umanistica)

Il Sogno è l’infinita ombra del Vero

(Giovanni Pascoli, Alexandros)

La grande lezione di Panovsky appare quasi dimenticata, sbiadita, a sua volta cristallizzata in convenzioni, mormorii, sbadigli. Così la grande lezione di Propp, seppur ripreso più volte dal nostro Mario Praz. E che dire dell’altro grande pensatore dell’iconologia, Warburg? Pochi abili adepti lo seguono con devozione, quelli della community di “Engramma”. Per il resto Warburg ridotto a estetismo, a citazionismo!

La grandezza dei pensatori nel tempo si fa moda, aforismo, idolo, teorema, atteggiamento, cioè si raggruma in posa e gesto, come evaporando quella loro visione spirituale che li ha resi grandi. Si guarda al dito e non alla luna? Si guarda alla loro grammatica ma si perde la sintassi, il ritmo del loro discorso, quell’essenza che loro hanno colto si perde, impallidisce quel “cuore” che va oltre la storicità delle loro pur preziose conclusioni. Questo decadimento cultural-linguistico, che ricorda quello degli isotopi del carbonio nonché la decantazione delle misture liquide (ma purtroppo avviene valorialmente in modo invertito!), si rivela macroscopicamente nelle difficoltà che incontra la storia dell’arte italiana a raccontare i suoi grandi capolavori.

Ci deve essere un motivo se i maggiori studiosi del Rinascimento e dell’Umanesimo italiano non sono italiani! Ci deve essere una causa precisa, culturale, ideologica, formativa, se non pochi storici dell’arte italiana faticano nella narrazione dell’arte, faticano a parlare a chi non appartiene alla loro “community”, come se l’arte fosse e dovesse essere una cerchia esoterica, elitaria, e faticano specialmente quando devono divulgare i grandi capolavori italiani e quando si devono cimentare con i mezzi della comunicazione sociale di massa. Questa “fatica” è facilmente visualizzabile, dimostrabile ed esemplificabile (quasi teorizzabile) se consideriamo il “racconto ufficiale” del Cenacolo di Leonardo. Se ci fate caso il Cenacolo più famoso al mondo è proprio lui la vittima in queste narrazioni di successo (come quella di Marani, tanto per non far nomi) rispetto a un romantico quanto poco scientifico “Mito di Leonardo” a cui si piegano gli stessi storici dell’arte, per ovvi motivi di interesse mediatico (ed economico) alla spettacolarizzazione.

E così abbiamo un paradosso: una storia dell’arte che non racconta l’arte veramente perché non si occupa di ricostruire una visione dell’opera e dell’arte quale visione della cultura e della vita, ma si occupa dell’opera quale oggetto, quale feticcio, quale totem di una moda mediatica e sociale, fatta di atteggiamenti e di posture, non di idee. Se analizziamo con freddezza come ci viene raccontato il Cenacolo (e non poche volte anche altri capolavori e grandi autori) scopriamo facilmente come i vari documentari, libri, interviste, guide, non ci parlino in realtà dell’opera ma del “tempo di Leonardo”, della cultura del Rinascimento, il tutto con l’utopica ambizione di “entrare nella mente del genio”. Ma Leonardo è morto. È il Cenacolo che è vivo, se vogliamo farlo vivere. Non sapremo mai cosa c’era nella mente di Leonardo. Né appare così interessante a livello di metodo. Non solo perché Leonardo non ne scrive, la sua scrittura è spersonalizzata e tecnica, in realtà noiosa in quanto si tratta di appunti sparsi, estemporanei. Ma specialmente perché lo storico dell’arte non deve confondersi con l’autore di fiction e con lo sceneggiatore, anche perché di solito gli storici dell'arte sanno essere pessimi storyteller. L’intentio auctoris inoltre anticamente era molto meno soggettiva e personale di quanto possiamo immaginare, dato il forte ruolo dei committenti e i sempre presenti condizionamenti sociali, culturali e tecnici.

Lo storico dell’arte dovrebbe dirci perché il Cenacolo è opera superiore, unica, straordinaria, e non indulgere a una romantica moda che mira a esaltare Leonardo quale icona pop contemporanea, da accostare a Che Guevara, Madre Teresa ed Einstein, e da esporre tutti insieme all’ignorante ammirazione delle masse. Lo storico dell’arte dovrebbe focalizzare l’analisi sull’opera e non sull’autore. Leonardo non va trattato quale fosse un pittore del Novecento, libero (se mai un artista sia veramente libero) di inventare e declinare i soggetti narrativi a suo piacimento. Anche l’opera più sperimentale, come il Cenacolo, è veramente comprensibile solo se si ri-costruisce quale “situazione organica”, come insegna Panofsky, puntando il baricentro sul significato, sui linguaggi e non sugli aspetti storici e tecnici, spesso insufficienti, muti, irrelati all’unicità e singolarità dell’opera.

Se bastasse la storia e i documenti per “spiegare-raccontare” il Cenacolo significherebbe che non saremmo in presenza di un dipinto straordinario ma di un'opera convenzionale. Forse una certa “famiglia” di storici dell’arte non riescono a spiegare e a raccontare con efficacia la grandezza e unicità del Cenacolo perché hanno seguito approcci ermeneutici che sono rimasti sulla superficie, sulla pelle dell’opera ma non sono scesi nella sua visione spirituale, nella sua struttura. Tutti i grandi pensatori dell’iconologia hanno avuto un approccio linguistico-culturale-antropologico che ha permesso loro di valorizzare gli aspetti strutturali e visionari dell’arte, che vanno oltre la tecnica e i mezzi espressivi, ancillari rispetto a tali dimensioni essenziali.

Se quello che possiamo sintetizzare quale “funzione espressiva” in Warburg, Propp, Praz, Wing, Kerenyi viene indagata in se stessa e nella sua permanenza nel trascorrere diacronico degli stili, convenzioni, codici iconografici, allora significa che nel capolavoro l’aspetto iconologico è quello essenziale rispetto al codice iconografico. Per questi motivi la critica d’arte italiana resta quasi muta e vuota, nonostante le grandi operazioni commerciali e di comunicazione, di fronte al Cenacolo, così rivoluzionario a livello iconologico, e non in senso iconografico. Una storia dell’arte senza un suo “discorso sul metodo”, sarà sempre debole rispetto alle strumentalizzazioni del mercato. Una storia dell’arte che non inizia a leggersi Francesco Bacone e il suo concetto di “forma formante” e di “schema latente” non andrà oltre i grandi nomi che ho citato, da tutti gli esperti conosciuti ma quasi mai imitati!

La grandezza vera del Cenacolo è l’aver traslato e intrecciato più convenzioni iconografiche (anche non appartenenti ai modelli del soggetto narrativo trattato) realizzando l’opera proprio quale “realtà organica”, sistema olistico, come Panofsky intendeva la materia stessa della storia dell’arte: una ri-creazione di un mondo, quale è ogni grande opera d’arte. In Italia gli esperti non hanno mai confrontato il Cenacolo con tutta l’arte e la spiritualità del suo tempo ma la valutazione comparativa è stata condotta solo all’interno del ristretto modello iconografico dell’“Ultima Cena”. Per fortuna Leonardo e i suoi committenti avevano una “visione integrata”. Se non si accoglie questa visione non si capiranno mai le precise ragioni cosmocentriche e cristocentriche, derivanti dall’adozione del diverso modello del Cristo giudice in gloria, apocalittico, che presiedono alla divisione in due schiere esatte degli apostoli leonardiani. Si continuerà a lambiccarsi in modo retorico sul “Giuda insieme agli altri”, andando del tutto fuori strada.

Se vogliamo sintetizzare il Cenacolo a livello di visione e di struttura possiamo usare tre parole, che non troverete nella “narrazione” predominante, tutta appiattita a incensare il Mito di Leonardo dimenticando l’opera: Luce, Equilibrio, Compendio. Luce, perché si tratta di una delle prime opere europee (dopo la Madonna greca di Bellini) a utilizzare un fondo scuro, in questo caso scelto per valorizzare la rappresentazione quale irradiazione solare (e tenebris lux).

I fiamminghi iniziano alcuni anni prima questa rivoluzionaria operazione (il buio in pittura dopo secoli di oro bizantino) con le loro “Natività in notturno”, ma per diverse esigenze di realismo, non per la visione cosmica e spirituale che Leonardo imprime nell’opera affinché sia un Manifesto delle conoscenze, dei valori e degli ideali dell’Umanesimo, come vuole la presenza forte di Ludovico il Moro a Santa Maria delle Grazie e come apprezza e induce anche una committenza così colta ed esigente come i Domenicani per il loro nuovo refettorio. Equilibrio perché il Cenacolo è tutto un gioco sapiente di bilanciamenti, di gesti, colori, posizioni, posture e ritmi, tra destra e sinistra, alto e basso, irradiazione e ritorno al centro, a Cristo. Compendio, perché nel Cenacolo è presente ogni linguaggio indiretto: simbolico, allusivo, metaforico, anagogico, mitico, scientifico, numerologico, spaziale, floreale, architettonico, paesistico, oggettuale. Il Cenacolo dimostra come Praz avesse ragione a cogliere l’“allusività” quale essenza semantica dell’arte, e come Panofsky avesse ragione a comparare le formule e i tipi della retorica antica (l’Ars Grammatica di Dionigi il Tracio) all’opera d’arte quale parallelo e analogo racconto visivo. La sua grandezza di interprete deriva culturalmente anche dal fatto che la sua prima formazione è giuridica, non storicistica, per questo è attento al tema del metodo, della persuasione, del convincimento.

Arte e Diritto sono molto vicini e simili, oltre le apparenze. Entrambi si occupano di documenti, di verificabilità, di credibilità. L’unica loro vera differenza è nello scopo, più che nell’oggetto: risolvere conflitti sociali per il Diritto e risolvere conflitti cognitivi per lo studio dell’Arte. Se la critica d’arte non coglie le dimensioni semantiche e narrative dell’arte non potrà dirci nulla di interessante sul Cenacolo. Se la critica d’arte non torna a considerare il Cenacolo quale è cioè un esemplare di arte sacra, non un mostro alieno, fallirà la sua preziosa missione. Se la critica d’arte non saprà fare storia dell’arte, e una storia quindi inclusiva della religione, della cultura, delle credenze, e della scienza di allora (aristotelica e anche simbolica, non galileiana) allora non avrà abbracciato (= compreso) il Cenacolo di Leonardo. Se non si studiano i committenti di Leonardo, i Domenicani di fine '400 e la corte culturale di Ludovico il Moro, non si comprenderà quali giacimenti immaginali e linguistici attinse Leonardo.

Il “genio” esiste ma appartiene alla metafisica, all’indicibile e non alla storia dell’arte che dovrebbe studiare per prima cosa l’uso dei linguaggi culturali e degli immaginari, e non solo i codici delle convezioni iconografiche. Gli addetti ai lavori non hanno mai pensato di confrontare la gestualità enfatizzata degli apostoli leonardiani ai compianti di terracotta dipinta di San Satiro a Milano e dell’"urlo di pietra" di Bologna. L’ho dovuto fare io per primo nel 2010 con una mia conferenza di due ore, accompagnata da un articolo su Avvenire. Eppure era operazione interpretativa quasi banale per la sua evidenza. Questo confronto sfata radicalmente l’origine di una delle novità dell’opera (la gestualità appunto): non il “genio” dell’autore, che resta geniale ma per altri motivi, ma semplicemente il gusto spirituale del tempo, che voleva una religione rappresentata in modo più emozionale.

Come non possiamo non considerare il fatto storico della novità dello stesso refettorio domenicano: da pochi anni era stato ordinato ai frati di prendere i pasti in comune e non più da soli nelle loro celle come era tradizione. Questa novità funzionale e pratica del “luogo dell’opera” ha favorito la creatività di Leonardo. La narrazione “scientifica” attuale non ha mai studiato questi aspetti. Può essere scientifica un’analisi che prescinde dai committenti? Può dimostrare di possedere un metodo una storia dell’arte che resta imprigionata nella retorica dell’indicibile? Vittorio Sgarbi anni fa ruppe per un attimo l’attuale dannosa e irrazionale “ossessione leonardiana” gridando che Leonardo aveva errato nella scelta dei pigmenti e delle amalgame realizzando un dipinto che già pochi anni dopo la sua conclusione si stava gravemente autodegradando. Fatto conosciutissimo da tutti coloro che approfondiscono un poco il dipinto ma il “grido” di Sgarbi è un esempio simbolico utile perché in quel caso attirò l’attenzione sul Cenacolo quale opera sperimentale e nel contempo perché demitizzò Leonardo.

Basterebbe alzare un pochino lo sguardo sui significati per accorgersi di quanto sia spiritualmente sperimentale questo dipinto, e non solo tecnicamente. Una sperimentalità però non trasgressiva ma compendiativa, celebrativa. Gli unici due interpreti che si sono avvicinati al “cuore” semantico del Cenacolo sono stati un pittore, Franco Berdini, che convinse anche Argan, sul senso zodiacale della successione apostolica leonardiana e un’isolata ricercatrice: Sabrina Sforza Galitzia, che ha avuto il grande merito di comprendere come il Cenacolo vada studiato restando dentro l’opera e come l’opera così riveli propri codici narrativi e semantici, interni al soggetto narrativo vangelico e coerenti con esso. Può uno storico dell’arte dire qualcosa di interessante sul Cenacolo senza conoscere le Sacre Scritture? Persino gli scrittori di fantascienza si documentano a livello scientifico a livello di astronomia e ci sono storici dell’arte che trattano il Cenacolo ignorando del tutto il clima e le dinamiche spirituali di fine '400, tralasciando i numerosi riferimenti biblici presenti nel dipinto!

Altro esempio gigantesco dell’incapacità comunicativa ed esplicativa di una critica d’arte sterile in quanto non attenta al cuore semantico-narrativo dell’opera lo cogliamo nel recente film Raffaello Principe delle arti. Film ottimo dal punto di vista tecnico, scenografico, filmico, ma debole e fallimentare dal punto di vista della narrazione d’arte. Vi domina la solita vuota retorica romantica del “genio” inspiegabile. Due ore di film spettacolare per dire che il genio di Raffaello è inspiegabile! Possiamo formare le prossime generazioni alla bellezza in questo modo? Raffaello è autore difficile, molto tecnico, apparentemente freddo e lontano, pur nella perfezione visiva della sua opera. Perché non cogliere allora una sua unicità raccontabile? Perché non approfondire gli aspetti strutturali a livello di spazio-tempo dello Sposalizio della vergine (Pinacoteca di Brera) quale sintesi di tutta la sua opera? In questo suo dipinto la differenza con Perugino è totale, pur nella grande somiglianza degli stilemi e delle forme. Perché è una differenza iconologica all’interno di una grande somiglianza iconografica e stilistica. Una differenza che si coglie bene solo dentro una visione spirituale e simbolica del linguaggio cristiano-platonico della geometria, della numerologia e dello spazio.

La narrazione artistica del film invece accennava assurdamente allo Sposalizio di Raffaello come a un'opera più vicina al senso del reale rispetto a quella del Perugino! Ancora una volta il romantico e falso “Mito del vero” che rovina ogni vera analisi scientifica dell’arte, insieme al falso mito del “genio”, che uccide “l’Opera”, impendendo alle masse di com-prendere Raffaello che è pura Forma e Idea, pura ri-creazione del mondo in kosmos! E perché non cogliere un altro nucleo essenziale e “nuovo” in Raffaello, quello cioè psico-esistenziale quale precoce orfano dei suoi genitori? Non è grande Raffaello nelle Madonne forse perché non dipinge altro che sua madre? Non è incapace di darsi un modello da sé senza camaleontizzare altri grandi pittori (Perugino, Leonardo, Michelangelo) proprio perché nella sua anima operava il grande vuoto dell’assenza del padre, primo maestro di pittura? Non vela tutto di soffusa e fredda malinconia? Il “socchiuso” degli occhi in Raffaello non è solo stilema iconografico, ma fattore vissuto, per questo unico. Come non sentire l’assenza nella sua opera? Ecco come raccontare “l’indicibile”: volendolo comprendere.