Il dialetto è la fonte piena di mistero di qualsiasi lingua cresciuta

(Martin Haidegger)

Se una lingua recide le sue radici, è fatalmente destinata a un lento e irreversibile decadimento, e la lingua italiana, sotto l’assedio interno del politichese e del gergo televisivo, e, all’esterno, dell’ormai globalizzante inglese, rischia grosso; se poi aggiungiamo l’ormai conclamata desuetudine a scrivere, sostituita dalla facile semplificazione e banalizzazione della messaggistica, dove le parole sono addirittura suggerite o corrette dal telefonino, ecco che il quadro si fa ancora più cupo.

Già nel 1981, un’opera pionieristica, I dialetti e l’Italia (recentemente riedita), suonava l’allarme, andando ancora più all'origine della comunicazione linguistica e aprendo un'indagine, che allora sembrava ristretta a una piccola cerchia di specialisti, ma che già con questo testo aveva saputo interessare un pubblico sempre più vasto e, in particolare, il mondo della scuola, con interviste a insegnanti e studenti. Ne era stato autore Walter Della Monica, che, con il suo fiuto precorritore per tutto quello che la cultura nel senso più ampio della parola proponeva e imponeva, già negli anni cinquanta, col suo Trebbo Poetico aveva voluto coinvolgere poeti, intellettuali, studenti e semplici cittadini nel meraviglioso mondo della poesia, facendola riscoprire come “dono” fruibile da tutti.

La forma di inchiesta de I dialetti e l’Italia rivelava un taglio, insieme snello e concreto, che si rifaceva a quel “giornalismo d'autore”, che lo stesso Della Monica aveva promosso in un'altra sua geniale invenzione, il Premio Guidarello, giunto ormai alla sua XLV edizione. Quindi, un'impostazione documentaristica, con poche, essenziali domande che permettessero risposte chiare e comprensibili, come aveva suggerito Bruno Migliorini, a cui Della Monica si era rivolto, illustrandogli il suo progetto. Tra i “personaggi” interpellati, basti citare, fra gli altri, Montale, Bacchelli, Parise, Bo, Prezzolini, Testori.

Cos'è cambiato in questi più trent'anni? Certo, i dati che ci vengono dalla scuola e dalle forme di comunicazione giovanili non danno adito a grandi speranze. La lingua nazionale sembra sempre più stretta nella morsa di un'intrusione di forestierismi, soprattutto anglicismi, spesso gratuiti e modaioli e sempre più prona al linguaggio massmediatico. Le stesse Accademie della Crusca e dei Lincei denunciano anche l'incapacità, da parte delle nuove generazioni, di riuscire a selezionare il registro linguistico più adatto per comunicare con l'interlocutore e per adeguarlo al contesto espressivo in cui ci si trova. Per alcuni, proprio il progressivo venir meno della linfa del dialetto è uno dei fattori di questo svilimento e impoverimento dell'italiano; rescisse le radici con la madre-lingua, era inevitabile che non circolasse più quel sangue vivo di vocaboli ed espressioni che vivificavano la nostra parlata.

Fortunatamente, è coinvolto un numero sempre più alto di intellettuali, di politici, di semplici cittadini e la stampa vi dedica sempre più spazio. Proviamo ad ascoltare, a distanza di questi decenni, qualche nuovo intervento che ci illumini su come, oggi, è vissuto il problema. Per esempio, Sergio Romano, nella sua rubrica sul Corriere della Sera, su questo tema, che non è specifico delle sue competenze, rispondeva, mostrando tutta la sua partecipazione: “Non credo che esista un altro Paese europeo in cui tanti diversi dialetti abbiano avuto, sino alla metà del secolo scorso, una fioritura altrettanto abbondante e pregevole. A fronte di questa ricchezza sepolta l'Italia ha un'altra caratteristica. La sua letteratura nazionale, la sua letteratura politica e il suo teatro sono scritti, sino agli inizi del Novecento, in una lingua molto più aulica, colta e costruita di quella usata nei loro Paesi dagli scrittori francesi, inglesi, tedeschi e russi … si direbbe che ogni scrittore italiano stia utilizzando uno strumento prezioso, non interamente suo, da trattare con particolare riguardo, e stia traducendo da una lingua d'infanzia e dell'adolescenza con cui ha maggiore familiarità … Credo che esista un rapporto tra la vitalità dei dialetti e l'artificiosità della lingua nazionale ... ”.

Ma anche l'antropologia e l'etnologia hanno affrontato il significato della dialettalità; esemplare, in questo senso, l'equilibrato contributo di Luigi Maria Lombardi Satriani, secondo cui: “Non si tratta di diventare dialettofili, quasi che l'uso del dialetto sia in ogni caso e automaticamente segno di vitalità culturale: ma neanche è esatto rinchiudersi in una dialettofobia che identifichi arbitrariamente dialetto e povertà culturale … Molti, invece, ritengono che l'aumento degli italiofoni sia un effetto del progresso e si mostrano perciò paghi di questo processo, lento ma inarrestabile, di crescita culturale. A mio parere, ritenere in ogni caso positiva la perdita del dialetto per l'acquisizione della lingua è posizione estremamente generica e acritica: si dimentica che quasi sempre la fuga delle classi dominanti dal dialetto ha portato tali classi all'acquisizione di un italiano subalterno, per cui, non solo non si è giunti alla reale conquista di una pluralità di registri linguistici, ma si è stati sottoposti a un'opera di espropriazione della propria specificità culturale”.

Allora, chi meglio che Walter Della Monica, l'ideatore di questa anticipatrice inchiesta, poteva, alla fine, fare il punto su quello che è ormai un decennale “tormentone” linguistico? Ecco le sue risposte:

A distanza di tre decenni, I dialetti e l’Italia è più che mai attuale e stimolante: cos’è cambiato nella percezione del problema da parte degli intellettuali e della gente comune?

Mi pare che da parte della classe intellettuale (tranne le dovute eccezioni) ci sia minor interesse per la questione dialetto sì, dialetto no. E che la maggioranza sia più per il no che per il sì. Da parte, invece, della maggioranza degli italiani, ho l’impressione che ci sia più una rimembranza del passato che un vero interesse, soprattutto per certi modi di dire dialettali di una volta, come succede oggi in casa o con gli amici, scambiando qualche frase o battuta. A differenza di quanto avviene ancora in provincia, dove si continua a parlarlo, specie nelle campagne. Addirittura viene persino recitato il rosario in dialetto. Ma tutto ciò, fino a quando?

Ritiene positivo o negativo l’interessamento delle forze politiche a questa problematica?

A parte certe formazioni politiche, i cui rappresentanti sono obbligati a parlare in italiano, se vogliono farsi ascoltare dai più, non credo influisca più di tanto, l’interesse della politica verso la questione dialettale. Proprio recentemente ho letto alcuni nostalgici inviti da parte politica, a non trascurare lo studio del dialetto. Benissimo. Però, io avrei aggiunto la raccomandazione allo studio di un’altra lingua d’importanza internazionale, certamente più necessaria al futuro dei nostri giovani. I quali, se lo vorranno, potranno interessarsi al dialetto dei loro nonni o bisnonni, in un secondo tempo, come curiosità storica, studio, ricerca, letture, ecc. Secondo me la politica dovrebbe restare fuori da queste questioni, non avendo la possibilità di influire minimamente su quella che è, e che è sempre stata la naturale evoluzione linguistica fra le genti di tutto il mondo. Piuttosto, i nostri politici dovrebbero tener ben presente che l’unico collante che tiene insieme noi italiani è proprio e soltanto, direi, la lingua di Dante.

Lei è romagnolo e la Romagna ha una grande tradizione di letteratura vernacolare e vanta l’associazione Istituto Friedrich Schürr, una delle più attive nella difesa e valorizzazione del patrimonio dialettale. Pensa che tutto questo possa avere o avere avuto una ricaduta positiva sull’uso del dialetto o che sia un fenomeno solo elitario e di nicchia?

Penso che a lungo andare il dialetto di qualsiasi parte, sia destinato a diventare proprio un fenomeno solo elitario e di nicchia, come è successo per il latino o il greco antico, ad esempio.

Reputa anche lei che le parlate locali siano destinate a estinguersi lentamente per la mancanza del loro humus naturale, o che, con il coinvolgimento di cittadini e istituzioni, si possa tenerle in vita come lingua di comunicazione quotidiana?

Come detto più sopra, ho l’impressione che, fatalmente, le nostre parlate locali si estingueranno piano piano, e rimarrà qualcosa di loro nel nostro scrivere e parlare quotidiano, come succede oggi e come ha benissimo dimostrato Valeria Miniati, con la sua recente interessantissima ricerca, raccolta nel volume Italiano di Romagna. E ciò da valere, s’intende, anche per gli altri dialetti italiani che hanno prestato qualcosa alla lingua nazionale, e viceversa, nella sua miscellanea linguistica, a partire da quel volgare fiorentino di dantesca memoria.

In dialetto si può parlare di tutto o il suo registro, rispetto all’italiano, è più limitato?

Oggi il dialetto risente fortemente di non pochi vocaboli italiani di varia provenienza, e ciò a dimostrazione dei suoi limiti di resistenza sotto il profilo lessicale, come del resto dimostrano i versi poetici dialettali di oggi. Versi che denunciano chiaramente la loro dipendenza linguistica dall’italiano per farne della poesia, quasi sempre, purtroppo, più presunta che vera. Ma che, comunque, è e rimane ancora l’unica forma espressiva scritta e letta che resta a noi e ai nostri cari amici e sodali, fedelissimi cultori e difensori della nostra “lingua” di una volta.

Che soddisfazioni e che delusioni le ha dato scrivere un’opera così impegnativa e fuori dagli schemi?

La soddisfazione più grande è stata quella, dopo oltre cinque anni di paziente lavoro, di aver potuto interessare alla mia inchiesta (e questo lo devo in gran parte ai miei precedenti rapporti personali ai tempi del Trebbo Poetico e alla Fiera Letteraria che ne pubblicò, sin dall’inizio, varie puntate) tante importanti voci della cultura italiana e della comunità accademica, scientifica, oltre che quella scolastica di ogni parte d’Italia. A rileggere oggi, dopo più di trent’anni, le loro risposte, è come rivivere quegli anni, e far rivivere soprattutto chi non è più fra noi (specie la mia valentissima collaboratrice Nives Bardella e chi mi fu guida e maestro come il prof. Bruno Migliorini), ai quali devo, assieme a tutti gli altri, tutta la mia profonda gratitudine e il mio più vivo e affettuoso ricordo.