Il Courmayeur Noir in Festival celebra quest’anno il talento e la passione per il noir di un grande regista come Stephen Frears. Nell’ambito di una carriera contraddistinta dal successo in molte forme espressive, dalla commedia al cinema in costume, la sua attenzione al mystery è un elemento ricorrente: dall’esordio cinematografico con Gumshoe (1972) a The Hit (1984), da The Grifters (1990) a Mary Reilly (1996), da Fail Safe (2000) a Dirty Pretty Things (2002).
Per l’occasione il Festival ripropone due delle sue opere meno conosciute (Gumshoe e Fail Safe) e organizza un incontro pubblico – sabato 10 dicembre – con l’autore premiato quest’anno alla carriera agli European Awards dell’EFA.

Dei suoi film Frears dice:
“Alla fine sono rimasto senza lavoro e ho incontrato Neville Smith, che aveva scritto la sceneggiatura di Gumshoe. Gli ho subito comprato i diritti, prima ancora di proporre ad Albert Finney la parte del protagonista. Neville Smith aveva già scritto due romanzi e lavorato alle sceneggiature di alcuni film televisivi di Ken Loach. In Gumshoe io e Neville rappresentiamo persone che conosciamo ma c’è anche l’immaginario di due uomini che si sono nutriti di cinema americano. Si tratta di un film molto britannico su un personaggio che tenta di vivere una vita normale a Liverpool. La sceneggiatura è molto semplice e istintiva anche se la storia, alla fine, è assai complessa, ma non era l’intrigo che ci interessava. Neville conosceva molto bene Liverpool perché ci aveva vissuto e ha tentato di rappresentarla in modo dettagliato nella sceneggiatura, soprattutto la parte della città dove aveva abitato anche John Lennon”.

“La televisione americana mi ha poi proposto il progetto di Fail Safe, remake di un famoso film di Sidney Lumet degli anni Sessanta. Si è trattata di una vera e propria sfida perché ho girato in diretta con diciotto telecamere, ma me l’ha chiesto George Clooney e io non sono uno che evita gli ostacoli e le difficoltà. È stata un’impresa folle girare tutto dal vivo e forse qualche rischio avrei potuto evitarlo, ma gli americani sono troppo onesti e sinceri: non riescono proprio a capire davvero la corruzione degli europei”.

Di Stephen Frears e della sua passione per il noir così scrive Gianni Volpi:
“Il genere è il cinema, è il mito, è Hollywood; l’Europa è la socialità, è la cultura, la letteratura. Più o meno così Stephen Frears riassumeva la sua opera in una “lezione di cinema” a Cannes 2004. Come due fasi succedentesi l’una all’altra, come due poli diversi di attrazione. Sembra la storia di uno dei tanti inglesi, Reisz o Schlesinger, i fratelli Scott o Boorman, Peter Yates o Alan Parker, autori o professionisti comunque qualificati che, generazione dopo generazione, si sono mossi tra una sponda e l’altra dell’Atlantico. (Il viaggio “al contrario”, dagli States all’Europa, appartiene a pochi grandi, Welles Losey Kubrick, e ha un forte valore direzionale: è senza ritorno). L’egemonia dell’industria nordamericana, che da sempre fa da irresistibile calamita per chi fa cinema in U.K., ha così funzionato anche per Frears. Ma lui, forse, alludeva anche a una dialettica più segreta che ha operato sin dall’inizio all’interno delle sue opere, fondate sulla presenza, comunque produttiva, del genere. «Per lungo tempo ho ritenuto che il nocciolo della questione fosse il problema dei generi, che il cinema si dovesse fare con uomini armati di pistole», ha confessato ai suoi intervistatori Jonathan Hacker e David Price. Gumshoe (1971) e The Hit (1984), le sue due prime esperienze di cinema in mezzo a un mare di tv-movie, sono dei piccoli film di genere, un noir il primo, un gangster-film il secondo, entrambi del tutto giocati sulla figura dei protagonisti, in un caso un Albert Finney che impersona con istrionismo ben temperato un detective dilettante che ha il culto del private e di Humphrey Bogart, nell’altro Terence Stamp come gangster che compie il suo viaggio verso la morte, sequestrato dai complici che ha tradito. Dietro ad entrambi c’è una vera passione per un genere, una passione inutile che ne fonda il fascino in minore ma reale.”