Basterebbe guardare la cartina geografica dell’Italia, per capirlo. Il nostro paese, per la sua natura orografica, dovrebbe prima d’ogni cosa prestare attenzione al territorio, perché non ne ha molto a disposizione. Con una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, su poco più di 300.000 Km2, dei quali buona parte occupati dalla dorsale montuosa degli Appennini, siamo ben lontani - ad esempio - dalla Spagna, che conta oltre 500.000 Km2 e 46 milioni di abitanti, o dalla Francia, che ne ha rispettivamente 547.000 e 62 milioni.

Un'attenzione che dovrebbe produrre una legislazione contro il consumo di suolo, e quindi il dovuto impegno nella salvaguardia di quello non ancora consumato, come del resto imporrebbe la stessa Costituzione, che all’articolo 9 sancisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ma le classi dirigenti hanno sempre manifestato un approccio rapace, consumistico, alle ricchezze nazionali, che sono sempre state viste come qualcosa a cui attingere.

L’idea che l’edilizia fosse il motore dell’economia, ha sempre fatto il paio con quella dei beni culturali come il petrolio dell’Italia. Due idee, due approcci culturali, basati sull’idea di consumo. Ma se (fortunatamente) alla seconda non s’è mai riuscito a dare attuazione, la prima si è invece imposta come prassi comune. La filosofia delle grandi opere ha sempre caratterizzato la politica dei governi, di destra come di sinistra. E se nel dopoguerra c’erano necessità di ricostruzione e di ammodernamento infrastrutturale del paese, il meccanismo è poi andato avanti quasi inerzialmente, producendo - soprattutto a livello locale - il consumo selvaggio, spesso anche illegale, del territorio. Anche senza voler considerare qui il paesaggio come un bene culturale, come cercava di rammentare la Carta, basti pensare ai costi - in termini economici, sociali e umani - derivanti dalla mancata attenzione al territorio, il cui continuo sgretolamento costella la storia degli ultimi decenni.

Ma ovviamente la questione non riguarda solo le campagne, o le piccole frazioni. Al contrario, esiste una questione di paesaggio urbano in cui, anzi, tutti i nodi vengono al pettine. L’Italia è un paese con una elevatissima densità di città d’arte, il cui tessuto urbano non è però costituito soltanto dagli edifici monumentali, ma anche dalle case storiche di civile abitazione, che insieme ai primi ne disegnano l’impianto urbanistico. E su questo terreno (è il caso di dire) si gioca una partita importante, perché riguarda i decenni a venire, e forse anche oltre, e il modo in cui verrà affrontata è di grande significato. La questione, infatti, attiene a tre grandi problematiche, che in essa si intrecciano: la questione ambientale (consumo di suolo), la questione culturale (preservazione e valorizzazione dei beni), e la questione abitativa (disponibilità di alloggi).

Diversamente dalla Spagna e dall’Inghilterra, in Italia non si è prodotto un fenomeno di bolla immobiliare, e questo è un bene sia sotto il profilo economico che ambientale. In compenso, negli ultimi vent’anni si sono succeduti numerosi condoni edilizi, che hanno di fatto legalizzato l’abusivismo; un fenomeno che oltre ai suoi ovvi aspetti sociali ha rappresentato sia la causa prima di quello sgretolamento di cui si diceva, sia un continuo deturpamento del paesaggio urbano delle periferie. In ogni caso, il combinato disposto di numerosi fattori, quali la crisi economica globale, il conseguente contrarsi dell’intervento pubblico e della sua stessa presenza territoriale, la stasi se non la caduta del mercato immobiliare, ha determinato un quadro socio-economico particolare, che va a innestarsi sulla peculiare natura delle città italiane. Nelle quali, ad oggi, mentre cresce la domanda di alloggi a basso costo, soprattutto da parte di giovani ma non solo, l’edilizia abitativa - sia pubblica che privata - non è assolutamente in grado di dare risposte. La prima, per mancanza di risorse e di intelligenza politica, la seconda per disinteresse ad un mercato poco remunerativo.

Soprattutto nelle grandi città, l’emergenza casa è un dato in crescita, a cui continuano a non venir date risposte, se non quella di considerarne soltanto l’epifenomeno dello squatting, e di considerarlo sotto il punto di vista dell’ordine pubblico. Al contempo, aree crescenti di città vengono abbandonate al degrado, perché inutilizzate. Talvolta giungendo al paradosso di edifici storici recuperati e ristrutturati grazie all’intervento pubblico, che poi lentamente tornano verso la condizione precedente a causa del mancato utilizzo, conseguenza della più totale mancanza di progettualità (anche economica) degli interventi. Una situazione resa più complicata da una vera e propria giungla di titolarietà dei beni, a volte proprietà delle amministrazioni locali, a volte di ministeri, delle Curie o di società pubbliche o private. Il risultato è che nelle città italiane si trovano vaste aree edificate, più o meno agibili, ma del tutto abbandonate a se stesse.

Parallelamente, e ormai da decenni, va avanti la sceneggiata della dismissione del patrimonio pubblico inutilizzato, spacciata come via per reperire risorse. In realtà, le varie aste che si sono tenute non hanno praticamente prodotto nulla, e spesso quelle poche vendite effettuate (al ribasso) hanno visto come acquirente la Cassa Depositi e Prestiti; come dire che lo stato con una mano vende e con l’altra compra. Nel frattempo, però, il valore degli immobili - e con esso quello del patrimonio pubblico - è sceso. A tutto vantaggio degli speculatori, che non devono far altro che restare sulla riva del fiume, ad attendere che passi il cadavere dei beni pubblici.

E quando filtra qualche elemento positivo, finisce ineluttabilmente per perdersi nella palude burocratica. Come la legge 112, del 7/10/2013 (“disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”), con la quale si prevedeva che una serie di edifici dismessi potessero essere “locati o concessi per un periodo non inferiore a dieci anni ad un canone mensile simbolico non superiore a euro 150 con oneri di manutenzione ordinaria a carico del locatario o concessionario. Tali beni sono locati o concessi esclusivamente a cooperative di artisti e associazioni di artisti, residenti nel territorio italiano”. A distanza di otto mesi, non vi sono né i decreti attuativi né l’elenco dei beni disponibili, né tantomeno i bandi per l’assegnazione.

La questione, dunque, è affrontare di petto questo nodo, che riguarda lo sviluppo sociale ed economico del paese. E farlo non solo in fretta, ma anche - se non soprattutto - con una visione complessiva dei problemi, e del quadro in cui si collocano le soluzioni. Rispetto alle città italiane, con il loro patrimonio d’arte ma anche immobiliare, sembrano prospettarsi poche alternative alla condizione attuale, di progressivo depauperamento. Il processo di dismissione e/o delocalizzazione industriale, infatti, non solo genera crisi occupazionale - con tutte le conseguenze economiche e sociali che questa comporta - ma aggiunge degrado urbano, con sempre nuove aree destinate all’abbandono, e che circondano le periferie. A questo tipo di degrado, finora si è opposto il modello disneyland, quello già applicato a Venezia, che di fatto presuppone la trasformazione della città in una gigantesca scenografia a uso del turismo, sottoponendola a una forma estrema di gentrification, e a uno sfruttamento intensivo e rapace delle sue bellezze. Basti pensare che da un lato si spendono miliardi di euro per il Mo.Se. (e adesso sappiamo anche come... ), il sistema di paratie che dovrebbe proteggere la laguna dall’acqua alta, e dall’altro non si vuole fermare il transito delle grandi navi da crociera a ridosso di San Marco. L’intera città, del resto, ormai in buona parte svuotata dei veneziani, ha un economia esclusivamente basata sul turismo.

Questo modello è quello che, sostanzialmente, si cerca di applicare anche a Firenze, e contro cui da tempo si batte Tomaso Montanari*, e che sottende a certi orientamenti riformatori del MiBAC, e in particolare delle Soprintendenze - che pure non sono certo esenti da responsabilità e atteggiamenti meramente conservatori. Un altro modello, che sembra essere ad esempio perseguito a Napoli, è quello della città-brand, sullo stile di Barcellona. Senza arrivare agli estremi del modello disneyland, del resto applicabile solo a città medio-piccole e con un'elevata concentrazione di beni artistico-culturali, la città-brand punta anch’essa a essere riconosciuta come meta ambita per il turismo internazionale di massa, e a fare di questo il principale fattore economico, limitando però l’impatto delle trasformazioni urbanistiche e sociali, e perseguendo l’obiettivo attraverso la valorizzazione della identità peculiare della città.

Pur tuttavia, questo modello - che anche sta creando non pochi problemi nella città catalana, dove la cittadinanza comincia a sentirsi espropriata dalla presenza invasiva dei turisti - richiede comunque delle politiche strutturali, e non meramente d’immagine, che ad esempio la città di Napoli è ben lontana da avere. Il paragone tra le due città mediterranee, infatti, andrebbe fatto sui fondamentali: decoro urbano vs degrado, trasporto pubblico efficiente vs inesistente, politiche culturali intelligenti vs sconclusionate, qualità della vita decorosa vs deficitaria... Napoli del resto, e non a caso, non riesce nemmeno ad accogliere significativamente la gran massa di crocieristi che vi attraccano annualmente, quasi tutti immediatamente dirottati verso località più o meno limitrofe (penisola sorrentina, costiera amalfitana, Pompei... ). In entrambe i modelli, quello che viene intercettato è un turismo mordi-e-fuggi, che è ben rappresentato dagli autobus SightSeeing: ovvero guardare vs conoscere.

Bisognerebbe piuttosto rifarsi ad Amburgo o Marsiglia**, dove le politiche cittadine hanno posto al centro il riuso degli spazi abbandonati, puntando innanzitutto sulla rivitalizzazione del tessuto sociale ed economico urbano, e solo poi, attraverso questa, a una economia di più ampio respiro che includa il turismo come risorsa. Insomma partire dal basso, liberando risorse e offrendo opportunità, piuttosto che fare grandi investimenti promozionali, che scivolano sulle città lasciando ben poco - e a pochi. Nel concreto, una strategia perseguibile nelle città d’arte italiane (praticamente tutte), che rispondesse a un tempo alle tre urgenze di cui sopra, potrebbe articolarsi secondo questi asset:

  • avvio di una politica che privilegi il recupero abitativo dei centri storici, e in generale del tessuto urbano, a discapito delle grandi opere
  • assegnazione a scopo abitativo degli immobili pubblici in disuso, a canone fortemente agevolato, e con sostegno alle opere di ristrutturazione
  • assegnazione di immobili pubblici in disuso, a canone zero, per l’avvio di imprese artistiche e culturali

Ridare fiato alla microeconomia locale, fornire risposte alle esigenze abitative, favorire lo sviluppo di processi di riappropriazione sociale e culturale del tessuto urbano, frenare il degrado delle città. Un'altra città è possibile.

Note