La Belle Époque si concluse in modo drammatico, agli albori della Prima guerra mondiale. Il mondo sembrava immerso in un clima di pace e di serenità, compreso nella ventata di novità e di sensazione di vivacità propria di quando sembrava che tutto andasse per il meglio. Covavano, però, motivi di astio tra le popolazioni che non godevano di libertà e indipendenza dalle madri patria, tra le potenze che già guardavano malamente il nuovo affacciarsi sullo scenario imperialista di una Germania aggressiva e troppo concorrenziale, soprattutto per la Gran Bretagna. Gli armamenti andavano aumentando, segno che prima o poi si aveva intenzione di adoperarli, e gli accordi economici che venivano siglati con le autorità portuali per il controllo dei commerci nelle altre regioni del Mediterraneo, oppure ancora più lontane, mettevano le potenze europee sempre più in competizione. Quindi il sentore di una guerra era vicino, con alcune anticipazioni nelle rivolte in Russia, nel 1905, oppure nella guerra italo-turca o di Libia del 1911/12.

L’opinione pubblica, quella più attenta, che pensava al conflitto non come ad una possibilità remota, cominciava a domandarsi cosa sarebbe stato meglio fare: intervenire o meno in guerra, nel rispetto dei due accordi sottoscritti rispettivamente nella Triplice Intesa, già Intesa Cordiale, che era stata stipulata da Gran Bretagna, Francia e Russia nel 1907, e Triplice Alleanza, sottoscritta nel 1882, tra Germania, Austria e Italia. Un’alleanza, quest’ultima, alquanto strana, dal momento che Austria e Italia avevano appena finito di affrontarsi nella cosiddetta terza guerra di indipendenza nel 1866, e che l’occupazione da parte austroungarica di Trentino e Friuli lasciava ancora sospese parecchie questioni tra le due potenze. L’Italia, dal canto suo, aveva iniziato una politica imperialistica non troppo felice, se si pensa, ad esempio, alla terribile disfatta di Adua del 1896. Sono tanti i personaggi importanti che hanno assunto una posizione favorevole o contraria alla guerra negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale, ma anche durante il famoso anno di neutralismo italiano, cioè dal luglio 1914 al maggio 1915. Tra questi ho scelto coloro che avranno un ruolo importante nel nostro Paese anche negli anni immediatamente seguenti il conflitto, o anche molto dopo.

L’opinione pubblica italiana del 1914 era divisa grossomodo in due correnti: interventisti e neutralisti. Interventisti erano i liberali e i conservatori che speravano in un rafforzamento autoritario delle istituzioni. Apparteneva a questi, ad esempio, il capo del governo Antonio Salandra.
Gli irredentisti che volevano compiere l’unificazione territoriale italiana.
I socialisti rivoluzionari che volevano il compimento della rivoluzione comunista.
I nazionalisti che esaltavano la guerra come modo per dare potenza alla nazione.
Gli industriali, soprattutto produttori di armi e dell’industria pesante.
La massoneria e i futuristi che vedevano nella guerra “l’igiene del mondo”, oltre ad un gran numero di intellettuali.
Erano contrari all’ingresso in guerra dell’Italia, nel 1914, i neutralisti che raggruppavano i cattolici, sfavorevoli ad entrare in guerra contro la cattolicissima Austria, ma anche contrari all’uccisione e al conseguente ateismo che la guerra sembrava portare.
I socialisti che consideravano la guerra voluta dai borghesi e dai ricchi a scapito di operai e contadini, destinati a combattere e morire.
Ed infine, i giolittiani che volevano trarre il massimo profitto politico dalla neutralità italiana, ottenendo dall’Austria le terre irredente, senza combattere.

Iniziando dagli interventisti, distinguiamo un interessante interventismo di sinistra che dovrebbe essere antitetico ad una politica socialista, che si è sempre schierata contro la guerra, destinata al combattimento di operai e contadini e alla sofferenza della povera gente comune. Questo, infatti, è una parte del movimento interventista di matrice politica progressista che fa proprie le tradizioni risorgimentali italiane e quelle del sindacalismo e socialismo rivoluzionario, convinti che una guerra fosse necessaria per scardinare lo status quo e ottenere il potere del proletariato. L’autocritica interna alla sinistra fu forte dopo il fallimento di alcune manifestazioni organizzate nel 1914, dette la Settimana rossa, quindi alcuni esponenti, tra i quali Alceste De Ambris, Armando Borghi e Filippo Corridoni, a capo quest’ultimo della forte sezione milanese, vennero espulsi dal partito. L’Unione Sindacale Italiana espulse tutte le sezioni interventiste del Paese che si congiunsero così con l’interventismo di stampo futurista che già stava avendo successo nelle piazze, grazie all’azione di Filippo Tommaso Marinetti e Umberto Boccioni.

Nacquero così i Fasci Rivoluzionari d’Azione Interventista, il 5 ottobre 1914, a cura di Angelo Oliviero Olivetti, e venne promosso un Manifesto, cioè un programma politico, dell’interventismo di sinistra. In questo ci si proponeva di criticare la posizione neutralista del partito socialista, vista come una mancanza di prospettiva politica e di chiusura reazionaria nei confronti della storia stessa del movimento. Come non sfruttare l’opportunità storica data da una guerra? Questa, infatti, poteva dare coscienza agli italiani che sarebbero stati in grado di rovesciare i poteri costituiti dello Stato per formare una nuova entità socialista. Il popolo doveva trovare in sé la spinta per fare esplodere il cambiamento, sfruttando la trincerocrazia.

In questo clima, il 18 ottobre 1914, Benito Mussolini, direttore de L’Avanti!, strenuo sostenitore della neutralità italiana seguendo le direttive del partito (era già stato direttore de La lotta di classe ed era stato arrestato il 14 ottobre 1911 per avere preso parte con l’amico repubblicano Pietro Nenni alle manifestazioni organizzate a Forlì contro l’imperialismo giolittiano e la decisione di conquistare la Libia), pubblicò nella terza pagina del giornale un articolo in cui sostenne che il mantenimento della neutralità avrebbe ghettizzato l’Italia, e il movimento socialista italiano soprattutto, mettendolo in una posizione di subalternità. Secondo il direttore, bisognava quindi entrare in guerra, e al termine di questa, mantenere le armi per sovvertire lo stato liberale e realizzare la Rivoluzione. Il 20 ottobre, Mussolini venne allontanato dal giornale e un mese dopo circa egli fondò il Popolo d’Italia, giornale fortemente interventista, che gli causò l’espulsione dal partito il 29 novembre. Tra il 24 e il 25 gennaio del 1915 vennero fondati i Fasci d’Azione Rivoluzionaria; tra i fondatori Filippo Corridoni e Benito Mussolini. Alcuni tentennamenti di Mussolini circa l’ingresso o meno dell’Italia in guerra, seguivano quelli del governo Salandra per la successione al vertice del Ministero degli Esteri e anche con quelli del Capo di Stato Maggiore Cadorna circa la possibilità di attuare la mobilitazione generale.

Mussolini scrive in modo graffiante, incisivo, aggressivo, al fine di trasmettere inequivocabilmente le sue idee in modo lucido e forte. I suoi articoli vogliono convincere e si rivolgono ad un pubblico vasto, che include tutte le classi popolari. Per questo sarebbe un alleato prezioso sia per i neutralisti, che a lungo l’hanno avuto tra le loro file, che per gli interventisti, sovvenzionati anche dalla Gran Bretagna. Egli si lascia, infatti, convincere e passa così dal definire la guerra di aggressione e di conquista in un articolo dell’estate 1914, da evitarsi in ogni modo, alla guerra parola paurosa e fascinatrice da gridare con enfasi (articolo del 15 novembre 1914), alla guerra azione vitale per la nazione da mettere in atto senza indugio, nell’articolo del 14 febbraio 1915. Altri personaggi che fecero parte del movimento socialista interventista furono Pietro Nenni, Emilio Lussu, Roberto Farinacci e, per poco tempo, Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci.

Il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico. Si era giunti al termine di un percorso intricato e confuso fatto di trame segrete, della potente spinta propagandistica dei media, di pressioni d'ogni genere esercitate su un governo e su un parlamento fermo a lungo su posizioni neutraliste. Macchinazioni che avevano coinvolto anzitutto la classe intellettuale, in prevalenza interventista, mentre la voce dell'opposizione alla guerra, certamente maggioritaria ma incapace di forme organizzate, non aveva avuto modo di farsi sentire ed essere determinante in un Paese composto in gran parte da contadini e operai. Ottenuto l’intervento in guerra, Mussolini aspettò con trepidazione di partire per il fronte, come del resto molti entusiasti italiani interventisti e irredentisti.

Mussolini partì per la guerra nel settembre del 1915, inviato nella zona dell’Alto Isonzo, e dal dicembre del 1915 al 13 febbraio 1917 pubblicò sul suo giornale quindici corrispondenze che volevano raccontare la guerra in tempo reale ai lettori. Le corrispondenze vennero poi riunite in un libro dal titolo Il mio diario di guerra 1915-1917, uno dei primi, se non il primo, diari di guerra pubblicati in Italia. Mussolini si sentiva un “semplice soldato dell’esercito italiano” e anche il suo stile diventa dimesso, senza retorica, lontane ormai le necessità di convincere gli italiani a volere l’entrata in guerra. Il suo scopo era raccontare la nuda verità, anche se non mancheranno critiche a quello che venne visto come un progetto sempre di stampo politico. Leggiamo, infatti, di sacralità delle acque dell’Isonzo, di cameratismo, di discorsi disfattisti ma falsi, mentre alcune persone sono più certe che tutto sta andando per il meglio. Alla luce dell’analisi complessiva della guerra di trincea, molte note del diario risultano, quindi, stonate.

Scrisse il 16 settembre 1915:
“Mattinata fredda. Sull’Isonzo è un velo di nebbia. La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa. Discorsi e impressioni. Due soldati d’artiglieria. Accidenti! A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l'Inghilterra dorme; la Francia è spezzata; la Russia finita.
Discorsi odiosi e imbecilli che io ho sentito ripetere tante volte. I due compari - che non sono mai stati al fuoco - la piantano in tempo giusto per evitare una energica scazzottatura. Ma ecco tre bolognesi. Il loro morale è infinitamente migliore.
Durante la distribuzione del rancio, un capitano medico mi cerca tra le file.
- Voglio stringere la mano al direttore del Popolo d'Italia.
Pomeriggio di chiacchiere. Episodi di guerra. Esaltazione unanime degli alpini. L'Isonzo! Non ho mai visto acque più ceree di quelle dell'Isonzo. Strano! Mi sono chinato sull'acqua fredda e ne ho bevuto un sorso con devozione. Fiume sacro!”.

Il 19 settembre scrisse:
“Tramonto. Il caporale Claudio Tommei - romano - mi offre un passamontagna e un numero di Rugantino. Grazie. Quando, in Italia, si parlava di trincee, il pensiero correva a quelle inglesi, scavate nelle pianure basse di Fiandra e munite di tutto il comfort, non escluso - si dice - il termosifone. Ma le nostre, qui, a 2000 metri sul livello del mare, sono ben diverse. Si tratta di buche scavate fra le rocce, di ripari esposti alle intemperie.
Tutto provvisorio e fragile. È veramente una guerra di giganti quella che i soldati d’Italia - fortissimi - combattono. Non dobbiamo espugnare delle fortezze, dobbiamo espugnare delle montagne. Qui, il macigno è un'arma micidiale quanto il cannone!
Il vento della sera porta in alto il freddo e il fetore dei cadaveri dimenticati.
Notte chiara, di stelle”.

Qui è molto più evidente il mestiere del giornalista, non scevro, comunque, di una certa retorica che di tanto in tanto perde per scrivere pagine di assoluta sincerità. Il diario si interrompe il 23 febbraio del 1917. Nel corso di un’attività di tiro con un lanciabombe da trincea, sul Carso, un proiettile esplose all’interno del cannone e Mussolini e i compagni vennero investiti da una raffica di schegge. Venne ricoverato nel piccolo ospedale da campo, quindi portato a Milano. Durante la convalescenza ricevette anche la visita del re Vittorio Emanuele III. Rimandato in licenza nelle retrovie per 18 mesi, venne poi congedato illimitatamente con il grado di caporale nel 1919. Tornato ad occuparsi del suo giornale dal giugno 1917, Mussolini nell’agosto del 1918 ne modificò il sottotitolo da Quotidiano socialista in Quotidiano dei combattenti e dei produttori. Importante fu comunque la posizione interventista di Antonio Salandra, ricordata poi nel suo memoriale pubblicato nel 1915, e del suo ministro degli esteri Sydney Sonnino, che appoggiava la posizione a favore della guerra, partecipando alle trattative segrete per la stipula del Trattato di Londra. Sarà Sonnino poi a partecipare alla Conferenza di Parigi del 1919 che doveva stabilire gli accordi di pace.

Altro personaggio interventista fu Italo Balbo, nato nella provincia di Ferrara il 6 giugno 1896. La famiglia si trasferì quindi a Ferrara, centro politico percorso da fermenti di classe contadina e animato da idee socialiste, dove le dispute tra monarchici e repubblicani si svolgevano spesso al Caffè Mozzi. Anche il giovane Italo Balbo partecipò attivamente alle discussioni politiche, mostrando idee repubblicane, ma conservatrici, che lo misero in contrasto con la famiglia. Nel 1911, Italo seppe al Caffè Milano che Ricciotti Garibaldi voleva liberare l'Albania dal controllo ottomano, così fuggì di casa e tentò di partecipare alla spedizione militare, non riuscendovi perché bloccato dalla polizia, avvisata dal padre. Nel 1914, Italo si schierò decisamente con il movimento interventista a favore di una guerra contro l'Impero austro-ungarico e, durante la partecipazione ad una manifestazione a Milano, conobbe Benito Mussolini. Balbo divenne poi guardia del corpo di Cesare Battisti durante i famosi comizi da lui tenuti a favore dell'intervento in guerra.

Ricordiamo di Cesare Battisti soprattutto i famosi discorsi dall’albergo di Edolo, zona di confine con il “nemico” austriaco ancor prima dell’inizio della guerra e importante snodo per gli alpini che di Edolo hanno proprio un battaglione. Battisti era austriaco di nascita, essendo nato a Trento il 4 febbraio 1875, ma aveva studiato a Firenze, dove si era laureato in Geografia. Divenne presto patriota, seguendo le orme dello zio materno, don Luigi Fogolari, già condannato a morte dall’Austria per le sue cospirazioni antiasburgiche, ma poi graziato. Cesare entra nel movimento socialista trentino e fonda Il Popolo, e il settimanale Vita Trentin” e con lui andò appunto a lavorare per un periodo anche Benito Mussolini. Diventa deputato al Parlamento di Vienna e nel 1914 entra nella Dieta di Innsbruck. Allo scoppio della prima guerra mondiale, nell’agosto del 1914, si trasferisce con la famiglia in Italia dove diventa un propagandista interventista, tenendo comizi in parecchie città italiane a favore dell’entrata in guerra contro l’Austria. Quando l’Italia finalmente decide l’intervento in guerra, Battisti si arruola volontario proprio nel Battaglione Alpini Edolo, 50^ Compagnia. È evidente il suo eroismo, che gli valse un encomio solenne, e la sua dedizione ai suoi soldati che non lasciò per la vita presso il comando di Verona. Promosso ufficiale nel Battaglione Vicenza, 6° Reggimento Alpini operante sul Baldo e sul Pasubio, venne arrestato dagli austriaci nel 1916 e condannato a morte dal tribunale austriaco presso il Castello del Buonconsiglio di Trento. Sarà proprio l’importanza di Battisti presso il Parlamento a valergli il giro per la città come “infame” e “traditore” e sarà per questo che parecchia folla si riunì alla Fossa dei Martiri del Castello il giorno della sua uccisione, con ampio sprezzo nei suoi confronti e varie fotografie sia ufficiali che amatoriali della sua impiccagione e della sua morte.

Con lui, quel 12 luglio 1916 venne condannato a morte un altro irredentista, istriano, di Pisino, Fabio Filzi, avvocato attivo a Rovereto, classe 1884. La sua colpa per il governo austriaco fu non solo di essere irredentista, ma anche quella di avere disertato l’esercito austro ungarico per combattere a fianco delle truppe italiane, come volontario. Subalterno di Battisti, venne con lui arrestato sul Monte Corno il 10 luglio 1916 e tradotto a Trento dove venne processato al Buonconsiglio. La morte per impiccagione veniva assicurata ai traditori e come Battisti morì quindi. Il motivo della medaglia d’oro che gli venne riconosciuta fu il seguente:
“Nato e vissuto in terra italiana irredenta, all’inizio della guerra fuggì l’oppressore per dare il suo braccio alla Patria, e seguendo l’esempio del suo grande maestro Cesare Battisti, combatté da valoroso durante la vittoriosa controffensiva in Vallarsa nel giugno-luglio 1916. Nell’azione per la conquista di Monte Corno comandò con calma, fermezza e coraggio il suo plotone, resistendo fino all’estremo e soccombendo solo quando esuberanti forze nemiche gli preclusero ogni via di scampo. Fatto prigioniero e riconosciuto, prima di abbandonare i compagni, protestò ancora contro la brutalità austriaca e col nome d’Italia sulle labbra, affrontò eroicamente il patibolo”. Monte Corno di Vallarsa, 10 luglio 1916.

Italo Balbo, dunque, durante la Grande Guerra fu alpino (Mussolini ebbe modo poi di chiamarlo “il bell’alpino” e di ritenerlo l’unico in grado di poterlo uccidere), invece, nel Battaglione “Val Fella” e si distinse fino ad essere promosso tenente. Il 16 ottobre 1917 venne accolta la sua domanda di trasferimento e raggiunse, così, il Deposito Aeronautico di Torino dove voleva seguire un corso di pilotaggio. Costretto a tornare al suo battaglione per la violenta offensiva austriaca, venne assegnato al battaglione alpino “Monte Antelao” e nel 1918 partecipò all’offensiva sul Monte Grappa al comando del battaglione alpini “Pieve di Cadore”, liberando la città di Feltre. Meritò una medaglia di bronzo e due d’argento al valore militare e raggiunse il grado di capitano. Rimasto al suo battaglione come commissario prefettizio di Pinzano al Tagliamento per cinque mesi alla fine del conflitto, tornò poi a riprendere gli studi a Firenze. Possiamo ricordarlo come fondatore del settimanale militare “L’Alpino” che diresse fino al dicembre del 1919, quindi come organizzatore della Regia Aeronautica, pilota nel 1927, fondatore della “città dell’aria” di Guidonia, della cittadella scientifica Guidonia-Montecelio, e la scuola alta velocità di Desenzano del Garda, dove sorgeva l’idroscalo di Gabriele D’Annunzio.

Gabriele D'Annunzio, già autore de Il piacere del 1889, ma anche de Il trionfo della morte, Poema paradisiaco, Le vergini delle rocce del 1895, massone come anche fu Italo Balbo, nel 1910 si era trasferito in Francia per sfuggire ai creditori e per far diradare le nubi che si erano intromesse, assieme ad Alessandra di Rudinì, nella relazione con Eleonora Duse, raccontata impietosamente ne Il fuoco. In Francia continuò ad occuparsi di letteratura, conobbe ad esempio Filippo Tommaso Marinetti e Claude Debussy, non tralasciando di mantenersi in contatto con l’ambiente politico italiano e intervenendo nel dibattito prebellico. Celebrò in versi, ad esempio, la guerra italo-turca, dimostrando già la sua indole interventista, che venne confermata durante la collaborazione con Corradini nell’Associazione Nazionalista Italiana, per la quale D’Annunzio inneggiava ad una nazione forte e potente, contro una “Italietta meschina e pacifista”. Rifiutando onori accademici, come quello di appartenere all’Accademia della Crusca, si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria con musicisti del calibro di Mascagni.

Allo scoppio della guerra, però, tornò subito in Italia per condurre una intensa campagna interventista. Egli inneggiava soprattutto ai fasti del Risorgimento, citava il mito di Garibaldi che non si poteva tradire, come affermò durante il discorso di Quarto dei Mille, in occasione delle grandiose celebrazioni garibaldine il 4 maggio 1915. Il re, che doveva intervenire alla manifestazione che avrebbe anche portato a scoprire il monumento dedicato ai Mille, fu “presente in spirito”, in quanto il governo, proprio il giorno prima, aveva denunciato il trattato di alleanza con la Germania e l’Austria, la Triplice Alleanza, e quindi il Consiglio dei Ministri aveva deliberato da Palazzo Braschi che nessun membro del governo si potesse allontanare da Roma, data la delicata situazione politica. Il sindaco di Genova Massone lesse pubblicamente il telegramma inviato da Vittorio Emanuele che recitava:
“Se cure di Stato, mutando il desiderio in rammarico, mi tolgono di partecipare alla cerimonia che si compie costà, non si allontana però oggi dallo Scoglio di Quarto il mio pensiero. A codesta fatale sponda del Mar Ligure, che vide nascere chi primo vaticinò l'unità della Patria e il Duce dei Mille salpare con immortale ardimento verso le immortali fortune, mando il mio commosso saluto. E, con lo stesso animoso fervore di affetti che guidò il mio Grande Avo, dalla concorde consacrazione delle memorie traggo la fede nel glorioso avvenire d'Italia”.

D’Annunzio parlò proprio dopo questa lettura e alcune parole di circostanza del sindaco, concludendo il suo discorso con queste parole:
"Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia!". O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.
Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.
Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.
Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l'evento, accetteranno in silenzio l'alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.
Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d'Italia".
È evidente che l’allusione a tornare a quei fasti è continua, tanto che la gente che lo ascoltava inneggiò: “Viva la guerra!”, “Viva Trento e Trieste!”.

L’apporto di D’Annunzio all’interventismo, per la sua caratura e la sua capacità oratoria, fu decisivo, dato che credeva davvero a ciò che diceva e che rimase celebre, suscitando entusiastiche manifestazioni interventiste. Intanto, manifestazioni avvenivano in tutta Italia a favore dell’intervento in guerra. Famiglie tedesche ed austriache presenti in Italia decisero di lasciare il Paese, mentre il Parlamento annunciò che un regio decreto sarebbe stato emanato da un momento all’altro. Il 7 maggio Sonnino annunciò che l’Italia si era impegnata ad entrare in guerra entro il 25 maggio, quando lo stesso Giolitti, rientrato a Roma dopo tre mesi di assenza il giorno prima, non ne sapeva niente. Egli fu contrario allo scioglimento degli accordi della Triplice Alleanza, ma gli vennero nascoste altre notizie, pertanto non si allarmò come avrebbe dovuto, data la sua posizione favorevole alla neutralità.

Il re si era impegnato con gli alleati della Triplice Intesa Gran Bretagna, Francia e Russia, pertanto annunciò l’8 maggio che se la Camera avesse bocciato l’intervento a fianco di queste potenze, avrebbe abdicato. È proprio in questa prima settimana di maggio che la stampa attiva una sempre più intensa campagna a favore della guerra. Così accade su il Corriere della Sera, L'Idea Nazionale, Il Secolo, Il Mezzogiorno e altre testate, oltre al giornale di Mussolini. Giolitti espose al re le motivazioni contrarie alla guerra in un incontro il 9 maggio e la questione politica divenne sempre più convulsa, mentre lo stesso Giolitti convenne preferibile che al governo rimanesse Salandra. La sua posizione era motivata dalla convinzione che, trattando una conveniente neutralità italiana, la guerra sarebbe finita più velocemente.

D’Annunzio arriva a Roma il 12 maggio e dal balcone dell’Hotel Regina dove prende alloggio, parla così alla folla, sempre con tono enfatico e perentorio:
“[...] C'è chi mette cinquant'anni a morire nel suo letto. C'è chi mette cinquant'anni a compiere nel suo letto il suo disfacimento. È possibile che noi lasciamo imporre dagli stranieri di dentro e di fuori, dai nemici domestici e intrusi, questo genere di morte alla nazione che ieri, con un fremito di potenza, sollevò sopra il suo mare il simulacro del suo più fiero mito, la statua della sua volontà romana, o cittadini? [...]
L'Italia s'arma, e non per la parata burlesca ma pel combattimento severo. [...]
Si risvegli Roma domani nel sole della sua necessità, e getti il grido del suo diritto, il grido della sua giustizia, il grido della sua rivendicazione, che tutta la terra attende, collegata contro la barbarie.
Dov'è la Vittoria? chiedeva il poeta giovinetto caduto sotto le vostre mura, mentre anelava di poter morire su l'Alpe orientale, in faccia all'Austriaco.
O giovinezza di Roma, credi in ciò che ei credette; credi, sopra tutto e sopra tutti, contro tutti e contro tutto, che veramente Iddio creò schiava di Roma la Vittoria. [...]”.

Il suo discorso non lascia dubbi sulla sua posizione, sempre fervente a favore di una guerra capace di sconfiggere la vergogna di non essere padroni delle proprie terre. L’indomani, il 13, il suo tono non fu da meno, soprattutto contro Giolitti:
"Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi, spezzate le false bilance! Stanotte pesa su noi il fato romano; stanotte su noi pesa la legge romana... Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio, ma con la spada lunga. [...]
Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante".
Il quale Giolitti era stato definito dal Partito socialista riformista “nemico della patria”.

Quel 13 maggio il governo Salandra si dimise, lasciando ben sperare per i neutralisti che, in questo modo, avevano dato ragione a Giolitti. Adesso Vittorio Emanuele III aveva un grosso problema. O chiamare al governo l’abile Giolitti, capace di mettere tutti d’accordo, ma contrario alla guerra, oppure mantenere i patti. Altrettanto abile, il re prese tempo, respinse le dimissioni di Salandra e, inaspettatamente, i più di trecento deputati che avevano appoggiato Giolitti adesso votarono l’entrata in guerra. E guerra fu.

Ammetterà in seguito Salandra che la maggior parte degli italiani era contraria al conflitto. La costernazione fu generale, ma D’Annunzio poté celebrare le “radiose giornate di maggio”. Da ricordare, infatti, anche il suo famoso discorso del 24 maggio 1915, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. E dimostrò che le sue non erano solo parole anche con i fatti: si arruolò volontario, a 52 anni, nei Lancieri di Novara e famose sono rimaste le sue imprese come il volo su Vienna e la Beffa di Buccari. È soprattutto il volo su Vienna del 1918 l’azione più clamorosa, e che ci permette di ricordare la bella mostra allestita al Museo Caproni di Trento, oltre che D’Annunzio non era un pilota, non ha mai conseguito il brevetto.

Poeta durante la prima guerra mondiale fu Giuseppe Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888 da un italiano impegnato nello scavo del Canale di Suez. Il suo amore per la poesia fu precoce, già in Egitto, e si perfezionò a Parigi dove si trasferì per studiare nel 1912. Lì divenne amico di Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi, Picasso, De Chirico, Modigliani e Braque. Iniziò a collaborare con la rivista “Lacerba” fino a quando non si arruolò per la prima guerra mondiale. Era infatti a Parigi allo scoppio del conflitto e partecipò alla campagna interventista in modo convinto, com’ebbe a raccontare durante svariate interviste degli anni ’50. Si arruolò volontario nel 19° reggimento di fanteria all’entrata in guerra dell’Italia e combatté sul Carso, dove scrisse le sue più famose poesie ermetiche raccolte poi ne Il porto sepolto nel 1916. È della sua prima licenza la poesia Natale, scritta a Napoli il 26 dicembre 1916 e Mattina è invece del 26 gennaio 1917, al suo ritorno al fronte a Santa Maria La Longa, in provincia di Udine.

Di qualche anno più giovane era Carlo Emilio Gadda, milanese classe 1893, figlio di un industriale tessile che accusò di avere esagerato nell’acquisto di una villa a Longarone, in Brianza, e poi di azzardati investimenti, soprattutto concorrenziali con la produzione della seta giapponese, tanto da portare la famiglia sul lastrico, risollevata solo grazie al duro lavoro della madre. Malgrado avesse altre aspirazioni, accettò l’idea della madre di iscriversi alla facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano dove manifestò convinte idee interventiste. Partì infatti volontario delle truppe alpine per l’Adamello e le alture vicentine dove venne preso prigioniero e portato a Celle, presso Hannover, in Germania. Lì trovò altri giovani italiani come lui e con i quali stringerà amicizia. Anch’egli assunse una posizione contraria alla guerra, soprattutto con l’opera, scritta come un diario, Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato nel 1955. In quest’opera si legge tutta l’amarezza di un soldato consapevole di come era stata condotta con somma inefficienza la guerra, e il suo profondo disprezzo per le gerarchie, inette secondo il suo punto di vista.

Interessante fu anche la posizione di un altro socialista, iscritto al partito nel 1914: Palmiro Togliatti. Egli affermava che non bisognava considerare tutte le guerre alla stessa stregua e che un conto era, pertanto, la guerra imperialista, e un altro la guerra per le rivendicazioni nazionaliste corrette contro i vecchi imperialismi. Quindi, appoggiò l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa e si arruolò come volontario allo scoppio del conflitto. Essendo stato riformato per la sua miopia, entrò nella Croce Rossa e prestò servizio presso vari ospedali, fino a quando, per necessità belliche, vennero rivisti i criteri di arruolamento e Palmiro divenne abile al servizio militare. Nel 1916 venne così trasferito al 54° Reggimento fanteria, dal quale chiese di passare al 2° Reggimento Alpini. Poi venne ammesso al corso per ufficiali a Caserta, ma non venne nominato ufficiale, pur avendo superato il corso, per motivi di salute.

Tra i personaggi contrari all’entrata in guerra dell’Italia vi fu un altro socialista, certo Alessandro Pertini, detto Sandro. Egli spiegò così il motivo della sua partenza per la Grande Guerra come volontario, malgrado fosse un convinto pacifista: “Io ero pacifista, ma andai volontario in guerra perché se a combattere dovevano andare i figli degli operai e dei contadini, dovevo andarci anche io”. Nato nel 1896, era figlio di un proprietario terriero, quindi di estrazione benestante. Si avvicinò al socialismo durante la frequenza del liceo a Savona, dove ebbe come professore Adelchi Baratono, socialista riformista che collaborava con Filippo Turati. Malgrado il suo impegno pacifista, venne assegnato al 25° reggimento di artiglieria da campagna a Torino; malgrado fosse diplomato, fu all’inizio solo soldato semplice, proprio a seguito del suo professato neutralismo che gli aveva impedito di entrare nella scuola ufficiali. Fu poi Cadorna, sul fronte dell’Isonzo nel 1917, ad obbligare i possessori di titolo di studio a prestare servizio come ufficiali e, quindi, seguì la scuola ufficiali mitraglieri FIAT a Brescia per poi tornare a combattere sulla Bainsizza. Come sottotenente di complemento si distinse per atti di eroismo, ricevendo la medaglia al valore militare per avere guidato l’assalto al monte Jelenik, sempre sulla Bainsizza, dell’agosto 1917. Si trovò poi a Caporetto durante la famosa rotta e trascorse l’ultimo anno di guerra sul Pasubio, dove venne nominato tenente. Il 4 novembre 1918 entrava a Trento alla testa di un plotone di mitraglieri. Divenne Presidente della Repubblica nel 1978.

Indubbiamente erano neutralisti i cattolici e tra questi il futuro fondatore del Partito Popolare don Luigi Sturzo. La sua attività politica era volta a dare voce politica ai cattolici e a diventare un’alternativa al movimento socialista, in chiave cattolica e sociale. Era convinto della necessità per i cattolici di impegnarsi in politica, pur mantenendosi autonomi in questo campo dalla Chiesa. Bisognava, cioè, creare un partito di ispirazione cattolica, ma senza entrare di nuovo nei meccanismi rigidi del passato. Secondo Sturzo la società non deve essere statica, ma rispettare il movimento dato dalle aspirazioni dei singoli, in chiave cristiana. La religione per lui non doveva essere uno strumento di governo, ma ogni aderente politico doveva scegliere di essere un buon cittadino, senza che fosse la Chiesa ad indirizzarlo nella scelta, che doveva rimanere un atto personale. Nato a Caltagirone nel 1871, responsabile dell’Azione Cattolica, muoveva critiche alla decisione di dichiarare guerra.

In questo si mostrava vicino alla posizione del pontefice Benedetto XV, eletto 258° papa della Chiesa cattolica proprio il 3 settembre 1914, quando da poco era iniziata la Grande Guerra. Nato in Liguria, a Pegli, nel 1854 come Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa, il papa fu uno strenuo oppositore della guerra. Di famiglia nobile sia da parte materna che paterna, apparteneva all’alta aristocrazia ligure ed aveva ampia preparazione diplomatica. Proprio questo, in uno stato di guerra dichiarata, deve avere favorito la sua elezione, sapendo che la sua esperienza maturata accanto a segretari di Stato come Rampolla e Merry del Val, sarebbe stata preziosa. Infatti, era stato nominato cardinale solo tre mesi prima, quindi era insolito pensarlo come papa, e proprio il momento particolare lo indusse a volere l’incoronazione nella Cappella Sistina, invece che in San Pietro.

La difesa della pace divenne tangibile con l’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, emanata il primo novembre 1914: in essa si appella ai governanti affinché facciano tacere le armi, per evitare lo spargimento di sangue. La Santa Sede fu relativamente libera fino all’entrata in guerra dell’Italia, quando fu praticamente inglobata in uno Stato in guerra, senza gli ambasciatori nemici dell’Italia che avevano lasciato il Vaticano. I suoi proclami a favore della pace si ripeterono per tutta la durata del conflitto, rivolti ai potenti e ai diplomatici affinché ottenessero il cessate il fuoco. Molti furono gli aiuti inviati alle popolazioni civili colpite dal conflitto. Furono sue le locuzioni “inutile strage” e “suicidio dell’Europa civile” a proposito della guerra.

Benedetto XV prese amaramente atto, tuttavia, che l’impegno cattolico a favore e nella guerra fu alto. I cattolici francesi vedevano la guerra come una unione sacra contro i tedeschi, mentre in Germania speravano, aderendo al conflitto in massa, di riuscire finalmente a consacrare l’unità nazionale, anche dai tedeschi conquistata da poco. In Italia furono molti i vescovi favorevoli al conflitto, così come i cattolici, pur se con motivazioni diverse e diversi schieramenti interni. Fu celebre l’esclamazione del 1917 di un predicatore francese che disse: “Santo Padre, noi non vogliamo la vostra pace”. Lo scrittore irlandese Georges Bernard Shaw propose di chiudere le chiese se dovevano essere adoperate per pregare per l’annientamento del nemico.

Coscritto nel 1901, nel 73° Reggimento fanteria brigata lombarda di stanza a Bergamo, era stato tale Angelo Giuseppe Roncalli, nato a Sotto il Monte nel 1881. Roncalli venne richiamato alle armi nel 1915, allo scoppio della guerra, e mandato nella sanità militare, dove svolse il ruolo di cappellano. Verrà congedato nel 1918 con il grado di tenente cappellano. Un’esperienza della quale fece tesoro e che citò anche una volta nominato papa con il nome di Giovanni XXIII. Contrario alla guerra, il papa bergamasco ora santo era stato vicino ai soldati ai quali non faceva mancare le sue parole di conforto.

Personaggi che durante quel terribile conflitto si sono temprati per diventare parte integrante, in vario modo, della storia italiana recente.