Appartenere all'Unione Europea significa vivere in un territorio che si estende per 4 milioni di kilometri quadrati con poco più di mezzo miliardo di persone. Rappresentiamo, a livello di Prodotto Interno Lordo, l'area più ricca del pianeta.

Da qualche secolo ormai, e dalla fine del mondo bipolare in particolare, siamo territorio di passaggio obbligato per i migranti che fuggono da guerre e fame e attraversano o si fermano all'interno dei paesi UE. Abbiamo attraversato l'indicibile tragedia di due guerre mondiali, il crollo dei paesi satelliti dell'URSS, le guerre jugoslave degli anni Novanta. Siamo entrati nel Ventunesimo secolo con una moneta unica alla quale si sono presto agganciati i paesi più solidi economicamente, che hanno creato le fondamenta per l'allargamento ai 27 attuali. Rispetto ad altre aree del mondo, abbiamo una lunga tradizione di esperimenti democratici e momenti storici che hanno fatto progredire la società in termini di libertà e uguaglianza. Abbiamo anche il triste primato dell'Olocausto e soprattutto del colonialismo, che ci ha visti correre all'impazzata verso luoghi lontani ove allargare i nostri traffici, a discapito delle popolazioni autoctone che hanno visto depredata buona parte delle loro risorse.

Tuttavia, ci siamo sempre rialzati, consci delle tragedie che avevamo noi stessi provocato - dentro e fuori i nostri confini - in un'opera di ricostruzione dalle macerie e di riabilitazione del senso civico; siamo riconosciuti a livello internazionale come potenza tendenzialmente non belligerante: qualcuno ci definisce, per scherzo, imbelli. Possiamo dire di essere in salute? Può, un continente che ha attraversato tutto questo, trovarsi in estrema difficoltà nell'affrontare le questioni moderne che sono all'ordine del giorno?

Sembra di sì, purtroppo. A quanto pare sembrano saltati degli equilibri, forse definitivamente. Intanto, dovremmo farci qualche domanda sulla costruzione di questa civiltà europea, così come era stata sognata nel Manifesto di Ventotene da Altiero Spinelli e promossa da coloro che nel secolo scorso misero le basi per la costruzione dell'Unione. La tanto decantata unione degli Stati d'Europa non si è fatta, e quindi attualmente non disponiamo di politiche fiscali ed estere comuni, di una visione condivisa sulla gestione dell'economia, su come debba essere fondato il corpus di diritti civili che accomuni europei e migranti da Lisbona a Cracovia, solo per accennare ad alcune delle tante lacune che l'Unione Europea esprime a livello collettivo. L'assenza di tali politiche comuni è palese soprattutto al di fuori del continente, nei rapporti che la stessa Unione mantiene con l'esterno, l'Altro da sé.

Sulle politiche di accoglienza verso i migranti extracomunitari stiamo scontando divisioni, chiusure e paure, che risolvono a mala pena le questioni concrete sui nostri territori (flussi, accoglienza, criminalità, reinserimento) e rinfocolano i timori di una parte di popolazione per una invasione inesistente. Come se all'altezza del 2015 potessimo anche solo immaginare continenti popolati da popolazioni "etnicamente pure". Soprattutto, temiamo di fare l'unica cosa che - forse - potrebbe quantomeno frenare la fuga di queste persone dai loro paesi. Non, "aiutandoli a casa loro", come sempre più spesso si sente evocare quando si ragiona con le viscere, anzi cercando di rimuovere le cause - millenarie, se mettiamo in fila tutta la storia dei paesi colonizzati - che scatenano l'impoverimento, la fame, l'emergere di fazioni terroriste, e quindi l'abbandono delle proprie terre in cerca di fortuna altrove.

E' ormai lunga la lista di errori macroscopici - compiuti dall'Europa e da altri partner internazionali, sicuramente gli USA - nella "lettura" dei processi socio-politici che i paesi africani o del Medio Oriente affrontano: nel tentativo di isolare una parte economicamente avversaria o fazioni potenzialmente pericolose per i propri interessi in terra straniera, si sono appoggiati candidamente, con armi e soldi, gruppi che col passare del tempo hanno preso il potere instaurando microfascismi di vario tipo e causando il rinvigorirsi dei conflitti interetnici. La culla dell'accoglienza costruisce muri, ospita ritorni di xenofobie e spinge alla guerra tra ultimi e penultimi.

E' imbarazzante, ora a 14 anni di distanza, credere a una sola parola dell'espressione "esportazione della democrazia": eventi degli ultimi anni alla mano, ciò che è stato esportato a medio-lungo termine è l'incedere sovrastante della Legge economica, per la quale lo sfruttamento delle risorse e l'allargamento smisurato dei profitti a scapito del lavoro rappresentano il canale preferenziale, la spina dorsale oserei dire, dei processi che coinvolgono politicamente le istituzioni locali e internazionali.

Naturalmente, l'atteggiamento che si opera al di fuori dei propri confini non è indipendente dalla dimensione interna. Le democrazie liberali che hanno governato i paesi europei negli ultimi 30 anni, pur con qualche piccola e interessante distinzione, hanno comunque gestito la cosa pubblica secondo canoni molto simili. Siamo pervenuti per esempio, a una graduale sparizione della gestione pubblica dei servizi al cittadino, per una fede incontrollata nei confronti della gestione privata e delle sue magnifiche sorti e progressive. Il mercato libero, si diceva, regolerà da solo questi beni che un tempo erano pubblici sia costituzionalmente che a livello di gestione. Prezzi più bassi, maggiore efficienza, diminuzione della spesa e dunque del disavanzo pubblico, e voilà, la ricetta magica risolveva tutto.

Il risultato che abbiamo davanti agli occhi è che in settori nevralgici - dalla sanità alla scuola, ai trasporti, alla rete di assistenza sociale, alle politiche ambientali - il margine dell'intervento pubblico è diminuito drasticamente, la qualità del servizio non sempre è migliorata, i costi sono mediamente aumentati, mentre gli interessi economici, finanziari, ambientali dei nuovi gestori aumentano costantemente. La colonna portante del welfare europeo novecentesco si è sgretolata, lasciandoci con file di imprenditori/banche/finanziatori che attualmente detengono la gestione di quello che viene indicato come bene comune o bene pubblico a seconda dei gusti.

In secondo luogo, la questione del lavoro. Per i milioni di lavoratori europei, questi anni sono stati quelli del disincanto: scomparsa graduale della contrattazione collettiva, andamento costante della bilancia salari/profitti a favore di questi ultimi, per non parlare degli effetti non secondari che l'esportazione all'estero di buona parte del lavoro manufatturiero ha generato su salari interni e generali condizioni lavorative. Anche in questo caso, il venir meno progressivo di alcune conquiste novecentesche ha creato i presupposti per una situazione che sfiora il drammatico, come la condizione delle giovani generazioni, che hanno ereditato un mondo senza più sicurezze e affrontano, al tempo della rivoluzione digitale in pieno corso, un ingresso nel mondo del lavoro non augurabile a nessuno.

Con questo non si vuole osannare l'intervento pubblico totalizzante, nell'economia come in altri settori dell'esistenza, e non si desidera neanche un impossibile ritorno verso remotissime e novecentesche soluzioni al vivere comune; si vuole sottolineare che le politiche che democraticamente abbiamo scelto in quanto cittadini nei nostri rispettivi paesi, abbiano in realtà piegato la testa nei confronti di poteri attualmente incontrollati, come quello della finanza speculativa; e che tutto ciò abbia pian piano minato il campo del rapporto tra cittadini e istituzioni, poteri locali e sovranazionali, decretando la fine della Politica come momento emancipativo e costruttivo per l'avvenire di milioni di cittadini. Qui si è allargato il fossato.

L'attuale situazione greca non è altro che il "collasso" di tutti questi elementi in una unica condizione di squilibrio: mancata solidarietà tra paesi, impossibilità di una gestione comunitaria delle crisi che se adesso strozzano la Grecia, un domani potranno sgretolare anche paesi altrettanto deboli economicamente; le politiche di austerity e di deflazione salariale che ovunque - non solo nella tragica Grecia - hanno abbassato il livello della produzione e della domanda interna causando un arretramento produttivo e occupazionale nei paesi "storici" dell'area Euro che in tempo di pace non era mai sceso così tanto.

Siamo dunque più impauriti da un futuro che non riusciamo neanche a intravedere, minacciosi e colmi di pregiudizi nei confronti del diverso, incapaci di comprendere che una delle cause della disperazione di una parte del mondo dipende dal nostro insostenibile benessere, questo stesso benessere che in realtà ci sfugge dalle mani e al quale ci aggrappiamo come ultimo idolo della nostra sfrenata voglia di affermazione personale.

Non è più tempo per le rivoluzioni di popolo (avendo, come dice un docente di letteratura all'Università di Roma La Sapienza, "la massa omologata sostituito il popolo") né, almeno all'orizzonte, per tentativi di solidarietà internazionale terzomondista fuori tempo massimo. L'uomo occidentale rimane prudentemente solo, cosciente di aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità, ma, come bambino impaurito, incapace di ri-pensarsi alla luce degli abbagli e delle ubriacature individualiste che lo hanno portato fin qui.