Molto è stato scritto e detto sull’esito del referendum britannico del 23 giugno, e tuttavia regna ancora la più grande incertezza riguardo ai suoi effetti sul futuro dell’UE e sulla vita stessa dei suoi cittadini.

Le prime reazioni cui esso ha dato la stura non autorizzano alcun ottimismo, tanto da poter essere compendiate nella metafora della “balcanizzazione dell’Europa”. A titolo d’esempio: la Scozia propone un altro referendum per uscire dal Regno Unito, i deputati cattolici dell’Irlanda del Nord si pronunciano per la riunificazione con Dublino, i nazional-populisti di mezza Europa invocano analoghi referendum nei propri Paesi per contrastare le élite tecnocratiche di Bruxelles, che avrebbero sequestrato la sovranità e la libertà dei popoli.

In questo fosco scenario, anziché stemperarsi, persistono le difficoltà a rilanciare l’asse franco-tedesco come motore dell’integrazione. Angela Merkel, infatti, sembra più interessata a invocare calma e prudenza nella gestione delle complicate procedure di uscita del Regno Unito che a spingere sull’acceleratore di un rilancio del progetto europeo; preferisce accreditarsi come mediatrice fra alcuni Paesi dell’Est attendisti e morbidi nei confronti di Londra e altri, come Italia e Francia, favorevoli invece a ridurre al minimo i tempi d’attesa del Leave britannico piuttosto che prendere l’iniziativa per cercare di trasformare la crisi in opportunità. François Hollande, dal canto suo, è un leader in profonda crisi di legittimità in patria, stretto tra l’incudine della minaccia terroristica che non accenna a placarsi e il martello della mobilitazione sociale contro la loi travail. Entrambi i leader, inoltre, sono resi ancor più cauti dalle scadenze elettorali domestiche che li attendono nel 2017.

Il contraccolpo della Brexit inverte una tendenza storica percepita per decenni come “destino manifesto”, lacerando il velo della retorica e mostrando una realtà ben diversa dalle sue rappresentazioni ufficiali. È la prima volta, infatti, che uno Stato membro, sia pure non appartenente al gruppo dei sei fondatori, abbandona l’UE, che siamo abituati a vedere descritta dalla pedagogia europeista come progetto di pace, sicurezza, libertà e benessere, come calamita in grado di attrarre sempre nuovi Paesi e di allargare i propri confini fino a lambire la Russia e la Turchia, il Nordafrica e il Medio Oriente. Questa, almeno, è stata la narrazione che ha accompagnato tutti gli allargamenti succedutisi dal fatidico 1957 – l’anno dei Trattati di Roma che istituivano la CEE – al big bang del 2004, quando, dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, ben dieci Paesi dell’ex blocco sovietico entrarono nell’UE, all’ultima adesione della Croazia nel 2013, dopo quella di Bulgaria e Romania nel 2007.

Si potrebbe gettare ogni colpa sull’insipienza politica di David Cameron, responsabile di aver indetto un referendum su un tema troppo complesso e delicato per essere deciso con un “sì” o con un “no”, e doppiamente colpevole per averlo fatto per ragioni politiche non solo interne al Regno Unito – cercare di contrastare l’ascesa dell’Ukip di Nigel Farage – ma addirittura interne al proprio stesso partito. Sarebbe, però, un esercizio vano e ipocrita, perché tutti ricordano i precedenti dei Paesi Bassi e della Francia, che nel 2005 rigettarono in un referendum il progetto di Costituzione europea, e tutti sanno che se oggi si votasse in tutta l’Unione Europea per il Leave o per il Remain probabilmente vincerebbero i sostenitori della prima scelta.

Altrettanto inutile è prendersela con il popolo rozzo e ignorante, che non sapendo capire il senso della posta in gioco si fa guidare dalle pulsioni nazionalistiche, populistiche e xenofobe anziché dal freddo calcolo delle utilità. Non si può essere democratici a giorni alterni, osannare il “popolo” sovrano quando vota secondo gli interessi delle élite politiche ed economiche e disprezzare la “plebe” ignorante quando vota contro le indicazioni dei poteri forti. C’è da chiedersi, piuttosto, perché l’UE, oggi, sia così screditata e come abbia fatto a dilapidare in pochi decenni un patrimonio d’idee, progettualità e speranze tanto forte da superare le storiche rivalità che nel corso della prima metà del Novecento avevano fatto dell’Europa il sanguinoso teatro di due guerre mondiali.

La Brexit ha cause endogene, attinenti alla speciale relazione che il Regno Unito ha storicamente intrattenuto con l’UE, e cause esogene, riguardanti lo specifico modo in cui è stata realizzata la costruzione europea. Quanto al primo aspetto, entrata nella CEE nel 1973, Londra ha sempre mantenuto una posizione ambigua nei confronti del processo d’integrazione europea: ha sostenuto la creazione del mercato unico europeo nel 1993 e la nascita dell’UE a Maastricht, ma non ha aderito a Schengen e non ha adottato l’euro. Ha promosso l’istituzione di uno spazio di libero scambio europeo, ma non ha mai identificato i propri interessi nazionali, politici e strategici con quelli dell’UE. Ha sempre mantenuto un atteggiamento liberista in economia e filo-atlantico in politica estera, ossia fortemente antirusso e acriticamente filoamericano, preferendo la special relationship con gli Usa all’approfondimento dell’integrazione politica del Vecchio Continente.

L’apice di questa tendenza è stato raggiunto nel 2003, in occasione della guerra contro l’Iraq, quando Tony Blair si accodò a George W. Bush, provocando la spaccatura dell’Europa fra sostenitori e oppositori della guerra (fra questi ultimi vi erano la Germania e la Francia). Stupisce, da questo punto di vista, l’acrimonia con cui oggi i blairiani accusano il leader laburista Jeremy Corbyn di non essersi speso con la dovuta determinazione nel sostegno alle ragioni del Remain. Dopo l’allargamento del 2004, quando mutarono gli equilibri strategici del continente, quando la Nato fu costretta a ripensare alla radice il proprio ruolo e una notevole quantità di migranti provenienti dai Paesi dell’Europa orientale si riversò nel Regno Unito, l’euroscetticismo britannico trovò nuova linfa. Insomma, da quando l’UE è stata percepita solo come vincolo e non anche come opportunità per affermare i propri interessi nazionali, la propria vocazione atlantica e la propria proiezione strategica internazionale, i britannici hanno cominciato a voltarle le spalle. La crisi dal 2008 ha fatto il resto.

La working class britannica ha votato Leave non per razzismo o per nazionalismo identitario, ma perché le politiche neoliberiste di laburisti e conservatori hanno progressivamente smantellato, come nel resto dell’Europa, gli istituti del welfare; perché le condizioni di lavoro si sono fatte sempre più precarie; perché con le politiche di austerity è aumentato il numero dei working poor e l’UE ha accettato di sacrificare il proprio modello sociale, costruito nei “Trent’anni Gloriosi” del Secondo dopoguerra, adagiandosi a svolgere il ruolo di mero esecutore delle logiche neoliberiste del capitalismo finanziario internazionale. Insomma, la Brexit non è la causa della crisi dell’UE, ma ne è semmai l’effetto o il sintomo.

E qui veniamo al secondo punto della nostra analisi, ossia al modo in cui l’UE è stata costruita. È risaputo che essa è nata come soggetto economico e come spazio di libera circolazione per merci, servizi, capitali e persone, ma non come soggetto politico e democratico unitario né si sono mai affermati gli Stati Uniti d’Europa sognati da Altiero Spinelli e dal Manifesto di Ventotene. Il deficit democratico che delegittima strutturalmente le istituzioni dell’UE è sotto gli occhi di tutti. Nonostante, infatti, il Trattato di Lisbona abbia cercato di rafforzare ed estendere le competenze del Parlamento, l’unico organo eletto direttamente dai cittadini, l’iniziativa legislativa è nelle mani della Commissione, il cui ruolo è quello di esecutrice dei Trattati, redatti dai governi. Oltre al Parlamento e alla Commissione, esiste il Consiglio Europeo, composto dai capi di Stato e di governo. Questa impalcatura istituzionale sembra fatta apposta per favorire il metodo intergovernativo di costruzione del progetto europeo a scapito di quello comunitario: decidono i governi nei vertici europei in base alla ponderata valutazione dei propri interessi nazionali. Il Leave britannico si spiega anche con la critica alla tecnocrazia di Bruxelles, a un dispositivo di potere concepito per realizzare gli imperativi di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”, come recitano gli articoli 119 e 120 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

La seconda questione, accanto a quella democratica, è quella sociale. La costituzione materiale dell’Europa del Secondo dopoguerra è stata demolita a pezzo a pezzo, con la privatizzazione dei servizi e delle politiche di welfare, con lo spostamento di enormi quantità di ricchezza dalla produzione e dal lavoro alla rendita, con la compiuta finanziarizzazione dell’economia. Tutti questi problemi si sono addensati nel voto britannico, che è diventato così la cartina di tornasole del fallimento del progetto di un’Europa democratica e sociale. Ovviamente, l’alternativa all’Europa dei burocrati e degli egoismi nazionali non può essere l’isolazionismo, l’abbandono delle conquiste europee in tema di diritti e di libertà di movimento (per i cittadini europei ma non per i migranti extra-comunitari, condannati a morte ai confini esterni dell’UE), il ripiegamento nazionalistico, la chiusura sovranista nei recinti degli Stati nazionali. La risposta non potrà che essere articolata sullo spazio europeo transnazionale e assumere le forme dell’edificazione dal basso di un’Europa democratica e sociale, che cammini sulle gambe di persone e movimenti che vivono le proprie lotte come pratica costituente di un nuovo soggetto politico.

Testo di Furio Ferraresi

Furio Ferraresi è ricercatore di Storia delle dottrine politiche nell’Università della Valle d’Aosta. Tra le sue ultime pubblicazioni: La politica della società. Ferdinand Tönnies lettore di Thomas Hobbes (1879-1932), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014 e, con F.M. Di Sciullo e M.P. Paternò, Profili del pensiero politico del Novecento, Roma, Carocci, 2015.