4 giugno 1944. Roma festeggiava l’ingresso delle truppe americane nella sua cinta dichiarata aperta durante l’occupazione nazista, ma duramente provata sia da questa che dai bombardamenti alleati e dalla miseria dilagante. In quei primi di giugno si respirava un’aria di liberazione, di sollievo e allo stesso tempo di paura per un avvenire che, momentaneamente, si scontrava con i cumuli di macerie. E che doveva fare i conti con lutti, tragedie familiari, deportazione degli ebrei dal ghetto. Con le vittime dichiarate e quelle che dovevano quasi scomparire. I tedeschi si erano resi colpevoli di innumerevoli atti di crudeltà, più o meno giustificati da rappresaglie annunciate o dalla necessità di interrogare prigionieri politici, possibili partigiani colpevoli secondo l’accusa di volere essi stessi stragi e violenza. Uno degli eccidi più misteriosi, sul quale è a lungo calato il silenzio, è stato quello noto come La Storta. Un episodio bellico non ancora completamente chiarito e ricco, ancora, di colpi di scena che si vogliono sapere e tacere allo stesso tempo.

I fatti acclarati sembrano questi. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1944, l’esercito alleato si prepara a entrare in Roma da sud. I tedeschi cercano la fuga in ogni modo e alcuni di essi caricano su due camion dei prigionieri politici incarcerati nella tristemente famosa prigione di Via Tasso. Si dice vogliano portarli con sé in Germania. Si trattava di prigionieri preziosi come salvacondotto: in caso fossero stati incontrati dei partigiani sulla strada, potevano sempre essere scambiati con la libertà di fuga o almeno con la vita salva. I prigionieri scelti, infatti, appartenevano, sempre secondo l’accusa, al Fronte Militare Clandestino, oppure erano socialisti. In effetti, tra essi c’è il comandante delle Brigate Matteotti, Giuseppe Gracceva, ma viene fatto salire sul primo camion in partenza che, tuttavia, è guasto e non va da nessuna parte. Il caso salvò la vita a Gracceva e agli altri saliti sullo stesso mezzo con lui. Sul secondo camion, un SPA 38, vengono fatti salire altri quattordici prigionieri. Il mezzo partirà, incolonnato da Via Tasso con gli altri mezzi tedeschi in fuga da Roma verso nord.

È notte, ormai, e il convoglio viene fermato sulla Via Cassia, in zona detta La Storta per pernottare. All’alba del 4 giugno, al chilometro 14 di Via Cassia, in aperta campagna, i quattordici prigionieri del nostro camion vengono allontanati dal resto del convoglio e portati in una rimessa della tenuta Grazioli. Nel pomeriggio dello stesso giorno verranno giustiziati con un colpo di pistola alla testa. Non è ben chiaro perché o chi emanò l’ordine. Il “carico” del camion era troppo prezioso per lasciarlo così, in un campo, al chilometro 14,200 di una delle più famose vie di accesso alla capitale. Il mistero fu chiaro fin da subito. Sarebbe stato di certo più importante, malgrado fossero nemici giurati, tenere con sé tutto quel gruppetto di uomini e assicurarsi via libera fino al confine. I corpi dei martiri vennero individuati dai contadini del luogo che diedero l’allarme; quindi gli alleati resero noto l’eccidio e i cadaveri vennero recuperati nei giorni successivi. Trasportati all’Ospedale Santo Spirito, vennero identificati e quindi si celebrarono i funerali l’11 giugno nella chiesa Del Gesù.

Le vittime furono le seguenti:
Eugenio Arrighi, honduregno di origine italiana, tenente dell’esercito al servizio del Comando Alleato, appartenente al Fronte militare clandestino, aveva svolto molte missioni alle spalle delle linee tedesche. Era stato arrestato il 5 maggio nella zona di Piazza Bologna, a Roma.
Vincenzo Conversi, ragioniere, radio operatore al servizio dell’O.S.S., l’Ufficio Informazioni delle Forze Armate statunitensi, forse appartenente alle Brigate Matteotti, non è chiaro quando e dove venne arrestato.
Libero De Angelis, meccanico, appartenente alle Brigate Matteotti per le quali svolgeva attività di collegamento, venne arrestato il 3 aprile 1944 a seguito di delazione. Tradotto nel carcere di Via Tasso, nel mese di maggio venne trasferito al 3° braccio di Regina Coeli, settore Politici, ma il 3 giugno, alle 16.30, prima della fuga da Roma, le SS tedesche, come risulta dalla scheda di incarcerazione custodita al museo di Via Tasso, lo prelevano e lo riportano a Via Tasso di nuovo. Medaglia d’argento al Valore Militare.
Alfeo Brandimarte, ingegnere, maggiore delle Armi Navali, vice direttore dell’Istituto Elettronico presso l’Accademia Navale di Livorno, appartenente al Fronte militare clandestino, venne arrestato a seguito di delazione il 25 maggio del 1944. Medaglia d'oro al Valor Militare.
Saverio Tunetti, insegnante elementare, tenente, appartenente al Fronte militare clandestino, svolse un’intensa attività partigiana nella zona di Alatri. Arrestato ai primi di maggio dopo aver issato una grande bandiera rossa in Piazza Melozzo da Forlì in occasione della Festa dei Lavoratori, venne associato al carcere di Via Tasso.
Lino Eramo, avvocato, collaboratore de Il Messaggero, fu accusato di contatti con i partigiani, quindi venne arrestato la mattina del 20 maggio mentre era ancora a letto, e poi venne trascinato di forza in Via Tasso.
Frejdrik Borian, ebreo polacco, ingegnere, appartenente alle Brigate Matteotti, era stato arrestato nel maggio del 1944 e rinchiuso nel carcere di Via Tasso.
Luigi Castellani, artista e professore.
Edmondo Di Pillo, ingegnere, direttore della sede romana della Ditta Bombrini Parodi Delfino, membro del Consiglio Direttivo dell’Unione democratica, agente dell’O.S.S., venne arrestato insieme alla moglie il 27 maggio 1944. Subì inenarrabili torture nel carcere di Via Tasso. Medaglia d'oro al Valore militare.
Pietro Dodi, generale di cavalleria nella riserva, appartenente al Fronte militare clandestino e Medaglia d'oro al valor militare, venne arrestato il 5 maggio 1944 e rinchiuso nel carcere di Via Tasso dove subì, nel corso di feroci interrogatori, atroci torture. Medaglia d’oro al Valore Militare.
Alberto Pennacchi, tipografo, appartenente alle Brigate Matteotti, fu arrestato il 7 aprile a Ponte Garibaldi, mentre trasportava delle armi, quindi rinchiuso in Via Tasso.
Enrico Sorrentino, capitano delle forze armate italiane, ufficiale di collegamento con l’O.S.S., appartenente al Fronte militare clandestino, era stato arrestato il 4 maggio a seguito di delazione.
Bruno Buozzi, operaio, dirigente sindacale, già deputato del PSI nella legislazione precedente alla dittatura fascista, operava attivamente tra Italia e Francia per l’affermazione del socialismo e del movimento sindacale. Era stato arrestato a Roma il 13 aprile 1944 nel corso di una retata a Trastevere, in Viale del Re (oggi Viale Trastevere); venne tradotto in Via Tasso e identificato, attraverso un documento di riconoscimento falso, per Alberto Alberti. Ma la sua vera identità venne presto ad essere conosciuta. Venne seppellito al Cimitero Monumentale del Verano.
Infine, un nome scoperto da pochissimi anni, precisamente nel 2009. Definito “Ignoto militare britannico”, era stato dapprima individuato come il capitano inglese John Armstrong, ma si faceva chiamare anche Gabriele Bianchi: si trattava in realtà di Gabor Adler, volontario ungherese, membro del servizio segreto inglese S.O.E. (Special Operation Executive), inviato a Roma dagli inglesi per spionaggio. Le assidue ricerche del colonnello Hoggan dell’Ambasciata britannica a Roma, hanno portato a identificarlo e a dargli degna sepoltura, dopo che per lunghi anni di lui non c’era notizia nemmeno sul cippo posto nella ex tenuta Graziani, a La Storta. Catturato da militari italiani in Sardegna, Adler dopo l’8 settembre finì nelle mani della polizia di sicurezza tedesca; venne così trasferito a Regina Coeli e successivamente al carcere di Via Tasso. È stato sepolto al Cimitero Monumentale del Verano. Accanto a lui riposa Bruno Buozzi.

Si ritiene che il motivo di queste morti per condanna senza processo fosse dovuto a un altro guasto al loro camion: divenuti un peso, era meglio eliminarli. Tuttavia si tratta di un’ipotesi alquanto strana, dato appunto il necessario lungo tragitto per giungere in zone sufficientemente sicure per i tedeschi, ma sempre con l’assillo di sabotaggi o scaramucce partigiane. Non era più conveniente tenere con sé cotanti salvacondotti umani? Altra ipotesi poteva essere stato, appunto, il sabotaggio del mezzo ad opera della resistenza che aveva costretto, per così dire, i nazisti a uccidere i prigionieri. Qualcuno sostiene che l’ordine di uccidere i prigionieri fosse stato dato già in partenza e che la messinscena fosse solo tale: un modo per giustificare la partenza e l’eliminazione di nemici pericolosi senza che venissero reclamati subito da qualcuno. Anche se qualche contadino della zona testimoniò di avere visto arrivare una motocicletta tedesca che poteva anche avere portato nuovi ordini. Non scartabile la tesi di avere voluto eliminare i prigionieri per far posto al bottino di guerra.

Per comprendere meglio il significato di questo eccidio, piccolo se comparato ai 335 trucidati alle Fosse Ardeatine, alle decine di fucilati a Forte Bravetta, ai 363 uomini, alle 689 donne e ai 207 bambini rastrellati nel ghetto ebraico di Roma il 16 ottobre 1943 e internati ad Auschwitz dei quali soltanto diciassette tornarono a casa, approfondiamo la vita di uno dei quattordici uomini uccisi alla Storta.

Luigi Castellani era dipendente del Ministero dell’Intero, maestro di Xilografia e di disegno. Venne arrestato dalla Gestapo, la polizia di sicurezza tedesca, nel pomeriggio del 4 aprile 1944, mentre aiutava il cognato, ricercato per la sua attività partigiana, a trovare un rifugio sicuro in un convento. Castellani venne tradotto subito al Carcere di Regina Coeli, terzo braccio, cella 279 (politici a disposizione della polizia tedesca), e successivamente trasferito in Via Tasso. Forse anch’egli, pur se la famiglia non ne aveva notizia, faceva parte dei Servizi Segreti o aveva qualche peso politico preoccupante per gli occupanti nazisti, altrimenti non sarebbe stato trattenuto e poi trasferito nel famigerato carcere di Via Tasso dove erano noti gli interrogatori con l’uso della tortura per estorcere confessioni o delazioni su partigiani o altri possibili nemici dell’occupante. Infatti, le perquisizioni in casa Castellani facevano supporre che la Gestapo volesse trovare prove della colpevolezza di quell’anonimo professore e artista.

Perquisizioni che, tuttavia, non davano risposte soprattutto alla famiglia, dal momento che non vennero forniti dettagli sul luogo di detenzione. Soltanto un pacco di generi di prima necessità, biancheria, cibo, sigarette e medicinali, portato a Regina Coeli dai familiari su consiglio di altre persone che avevano vissuto la stessa situazione, aveva avuto un cenno di risposta: era stato confermato quel carcere come luogo di detenzione di Luigi. Da quel giorno, almeno si poteva fare la spola tra casa e carcere per avere qualche debole notizia: non era permesso fargli visita, ma avere la biancheria sporca in cambio di quella pulita. La moglie portava qualche sigaretta, quelle poche che riusciva a trovare, e passava qualche furtivo messaggio, oppure ne otteneva dal marito. Utilizzavano come carta per scambiarsi poche parole, la carta seta giapponese che Luigi adoperava per le xilografie. La moglie la usava per avvolgere le uova, il pane, la frutta o qualche altro cibo consentito dall’amministrazione della prigione e Luigi, con un mozzicone di matita, vi scriveva qualche riga o leggeva le notizie da casa. Tra un pacco e l’altro, rimaneva la speranza che tutto potesse finire bene: Luigi era vivo e finché restava in carcere a Roma tutto era sicuro. Fino al 23 maggio: quel giorno il pacco portato a Regina Coeli venne respinto senza spiegazioni. Di nuovo non si sapeva che fine Castellani avesse fatto.

Con molto coraggio, la moglie Agostina continua la ricerca, e un giorno due calzini e un paio di mutandine sporche, ricevute in cambio di poca biancheria pulita e due uova sode, danno la prova che Castellani è ancora vivo. La signora lo trova in Via Tasso. Non si può dare più che due uova, due calzini e un paio di mutande in Via Tasso, ma, ancora una volta, quelle poche cose sono il segno che Luigi è vivo. Si può sperare, malgrado Via Tasso sia sinonimo soltanto di atrocità. La donna entra addirittura nel palazzo, raggiunge il secondo piano, dove ci sono le celle. Forse è a un passo dal suo uomo, ma viene cacciata in malo modo da un uomo in divisa. Urlava in tedesco. Sarà l’ultima volta così vicina a Luigi vivo. La speranza rimase fino all’ultimo, fino alle lacrime alla Storta e poi alla Chiesa Del Gesù, davanti alla fila di bare ai piedi dell’altare maggiore.

Roma, tra settembre 1943 e giugno 1944, visse nove mesi di terrore e arbitrio da parte delle SS e della Gestapo, oltre che della famigerate bande nazionali: Bardi, Pollastrini e Koch, che operavano autonomamente in varie zone della capitale come Palazzo Braschi, Pensione Oltremare, Pensione Jaccarino, che nulla avevano da invidiare a Via Lucullo, sede del Tribunale Militare nazista, noto per gli interrogatori a base di torture e i finti processi conclusi con inappellabili condanne a morte. Dichiarata città aperta, significava che Roma, con all’interno l’enclave del Vaticano, oltre che le sedi diplomatiche e il patrimonio storico/artistico mondiale, era priva di difese e di militari. In effetti in città non vi erano caserme o accantonamenti della Wehrmacht, ma vi potevano liberamente circolare sia le SS che gli uomini della Gestapo.

Le SS fungevano da polizia militare, in uniforme, armata, con reparti dotati di mezzi corazzati e pieni poteri. La Gestapo era invece la Polizia per la sicurezza dello Stato, un organismo civile con vastissimo campo di attività, e i cui membri, anch’essi dotati di armi individuali, non avevano un’uniforme proprio perché civili. Giravano solitamente vestiti di scuro, con pastrani o cappotti in pelle nera e cappello Borsalino. Tra loro nomi celebri, come il colonnello Kappler, processato per la strage delle Fosse Ardeatine, assolto per avere obbedito agli ordini, ma condannato all’ergastolo per avere fatto uccidere cinque persone oltre i termini della rappresaglia; o Pribke, sempre implicato nel caso Ardeatine. Nessuno venne processato per la strage della Storta. Ai parenti delle vittime è stato negato a lungo un degno monumento; talvolta la formalità della cerimonia di commemorazione strideva con il dolore di chi era sopravvissuto avendo davanti l’orrore.

Rimane una strada ora più curata, un cippo, la presenza a volte del sindaco alla cerimonia commemorativa, o comunque di un suo delegato. Senz’altro è più di sollievo celebrare la Liberazione, alla quale contribuì anche il sacrificio di tanta gente anonima o senza motivo di morire, come almeno apparentemente accadde ai quattordici del chilometro 14,200 della Cassia.