Parlare del Vin Santo vuol dire parlare non soltanto di enologia, vini e vite; vuol dire parlare di storia passata, di civiltà passate, perché il Vin Santo appartiene ai vini dell’antichità.

Fiorentini e senesi si litigano la paternità di questo nettare, ma il Vin Santo è un vino che probabilmente esisteva da quando è esistito il primo frutto della vite. Magari non si chiamava proprio Vin Santo, forse vino liquoroso, vino dolce o vino amabile, fatto sta che il nome “Vin Santo”, i fiorentini raccontano che fu dato a questo vino, in occasione del Concilio Ecumenico di Firenze nel 1349, dopo l’esclamazione fatta dal Cardinale bizantino Bessarione, quando bevendo un sorso di questo vino dotato di particolare bontà, proferì le parole “vino xantos” e da lì in poi il famoso aggettivo. La versione senese, parla invece di un frate francescano che nel 1348 curava le vittime della peste con un vino che era comunemente usato dai confratelli per celebrare messa; da questo si diffuse man mano la convinzione che tale vino avesse proprietà miracolose, portandogli così l’epiteto "santo".

Ma volendo, Vin Santo, come nome, può essere attribuito anche al fatto che l’uva viene “stuoiata” intorno al periodo dei “Santi” o anche prima dei “Santi” e a volte il vino veniva imbottigliato durante le feste della Settimana Santa. Tanti gli aneddoti e le leggende costruite intorno a questo vino, ma la sua origine ha radici più profonde di tanti periodi storici. Al tempo dei Romani, il Vin Santo era già un vino estremamente diffuso, consumato e apprezzato. Una volta i vini non erano apprezzati nella loro gioventù o semi-gioventù, come oggi, il valore dei vini era relegato alla loro età, alla loro maturità e alla loro anzianità di conservazione; basti pensare che Seneca conservava nei suoi ripostigli molti vini, rigorosamente suddivisi in base all’età e al loro pregio. Anche tra i romani servire un vino che avesse 20 o 25 anni era cosa normale; il vino giovane era quasi offensivo nei confronti dell’ospite invitato.

Il Vin Santo riporta a un’altra antica tradizione enologica, quella dell’appassimento dell’uva, o meglio di due uve in particolare: Trebbiano e Malvasia; quest’ultima era una delle uve più utilizzate per fare i vini dolci in Grecia e in Tracia, ed è sempre stata utilizzata per realizzare vini abboccati e amabili in tutte le zone d’Italia. Il Trebbiano e la Malvasia sono la base della preparazione del Vin Santo, con le loro uve messe ad appassire in appassitoi, collocati nella parte più elevata delle case coloniche o delle fattorie, per almeno tre mesi. L’appassimento delle uve per questo tipo di produzione costa enormemente: considerate che un quintale di uva messa ad appassire, una volta pronta, si sarà ridotta a circa 30-35 kg, e il mosto che se ne ottiene è veramente poco, se si vuole fare un Vin Santo buono e di un certo sapore.

Finito il periodo di appassimento l’uva viene torchiata dentro delle presse chiamate “strettoi” in modo che dall’uva venga fuori il suo contenuto liquido. Dopo questa fase di spremitura dell’uva, il liquido viene versato dentro i caratelli e poi sigillato. Il recipiente deve essere isolato dall’aria; un tempo si usava il cemento, oggi si usano delle ceralacche o delle plastiche, usate con particolari accorgimenti igienici. Il liquido viene conservato chiuso per almeno 3 anni, ma anche 5 o 7, e quando si arriva alla fine del periodo che si è stabilito, si procede all’apertura del caratello. Sono da precisare alcuni particolari. Il caratello non va completamente riempito di mosto, cioè del succo spremuto dall’uva; in genere si lascia 1/3 del recipiente libero, perché il procedimento di fermentazione frenata che si svolge all’interno potrebbe determinare una pressione eccessiva e provocare addirittura lo scoppio del caratello, o perlomeno delle sue chiusure.

Altro elemento importante è che nel caratello venga lasciata una parte del deposito che precedentemente si era formato dai raccolti precedenti, cioè la fondata; conosciuta meglio come “madre”, favorisce la fermentazione del nuovo raccolto e ne determina la solita impronta di profumi e aromi. Questa “madre”, che tende ad aumentare con la nuova fermentazione, poi, con i successivi raccolti, viene ridimensionata; altrimenti pian piano il recipiente si riempirebbe di “madre” e non ci sarebbe più posto per il mosto e quindi una parte della “madre”, col raccolto successivo, viene raramente gettata, ma passata a qualche fortunato amico o parente, che potrà a sua volta dar vita a un altro ottimo Vin Santo.

Il termine Vin Santo identifica un tipo di vino “toscano”, ma esistono anche altri esempi di prodotti simili, come il “Vino Santo” del Trentino, tanto per citare un altro famosissimo vino dolce da dessert. Le peculiarità di quello prodotto in Toscana sono di un vino quasi sempre leggermente amabile, tendente al secco, con sfumature più o meno dolci. In questi ultimi anni, la tendenza si è però più spostata verso il dolce, tanto da arrivare a produrre vini più vicini allo stile dei passiti o anche delle vendemmie tardive, irrobustite dallo stile toscano. Va da sé che più si va sul dolce e più si devono far appassire le uve per avere maggiori concentrazioni di zuccheri, con conseguente riduzione della produzione e aumento del prezzo del prodotto finito.

Oggi, la produzione del Vin Santo di qualità, da quello più tradizionale a quello più evoluto, nonostante la richiesta è estremamente limitata, per tutta una serie di motivi, costi compresi. Un vero peccato, perché il Vin Santo, nella sua originalità, fa parte dei vini cosiddetti “naturali”, ossia non aggiunti di alcool, di mosto concentrato o sottoposto a cottura. Ogni Vin Santo, inoltre, viene conservato e perfezionato nel suo caratello, fatto di ottimo legno, anch’esso importante e decisivo, per far arrivare a giusta maturazione un prezioso nettare avuto in eredità dalla storia.