Ogni luogo che tu ami è il luogo dell’amore, ogni cuore che tu senti diventa il tuo cuore. È questo che unisce le anime dei poeti.

Non è sulle pagine di un libro che ho trovato queste parole, bensì sopra un foglietto di carta sgualcita, scritte con amabile e rotonda grafia, custodite nella raccolta di ricette che mia madre aveva ricevuto da sua madre e ancor prima dalla madre di sua madre fino alla trisnonna in una continuità di trasmissione del sapere che ci parla di un patrimonio femminile nel quale il fare e il conoscere, il sentire e il creare si intrecciano.

Leggerle è stata una grande emozione, come pronunciare una formula magica attraverso la quale si è riaccesa la luce in quelle “stanze segrete e ingombre di cose”[1] che stanno dentro ciascuno di noi. Un ritrovamento prezioso, come un manufatto che rievoca e riporta in vita mondi che credevamo perduti e riapre conversazioni interrotte con coloro che ci hanno preceduto.

La parola, che è capace di incantesimo, ha rimesso in moto la memoria del cuore e mi sono ritrovata nella grande cucina nella quale le donne della mia famiglia materna si sono susseguite come depositarie di rituali e di arti che rimandano ad un tempo in cui la preparazione del cibo si accompagnava ad una sacralità che aveva la sua matrice nell’archetipo del pasto consumato come forma di condivisione e appartenenza, come segno di ospitalità e rispetto, quando non di devozione. Insieme agli ingredienti che servivano per preparare piatti prelibati, si impastavano parole e vita.

All’ultimo piano del palazzo in prossimità del ghetto ebraico la cucina di mia nonna era illuminata da un grande lucernario che le conferiva un che di mistico quasi che quel luogo fosse a diretto contatto con il cielo. Tra le tante stanze con i pavimenti di cotto, la cucina stava in una posizione centrale e certo non a caso poiché quel luogo era davvero un cuore pulsante: odori, suoni, parole, confidenze, incontri, pensieri, tutto nasceva in quella cucina, una sorta di quartier generale nel quale si decidevano le sorti del mondo, il piccolo mondo della famiglia, s’intende, che era forse anche l’unico con cui a quel tempo si aveva dimestichezza.

Esiste una ricorrenza nella storia delle donne, un’ identità di condizioni del vivere che rende emblematiche le storie individuali soprattutto quando si parla di vite vissute in secoli nei quali il ruolo della donna era assai più legato al suo essere considerata “per natura” madre e per contratto sociale depositaria delle sorti della famiglia, della sua continuità e del suo mantenimento. Per questo credo non sia difficile far emergere il legame di appartenenza che unisce ognuna di noi alla comunità delle donne che ci hanno preceduto.

La cucina è un monumento del cuore ed è bello ritrovarsi qui ad ascoltare le voci che narrano una lunga fiaba mai scritta, un racconto mitico nel quale affondano le radici di una sapienza che, quasi geneticamente, si è trasmessa in via matrilineare e fa sì che noi siamo arrivate al nostro “ora” anche attraverso il nutrimento che abbiamo ricevuto dalle Antenate. Basta sedersi su quella sedia con il cuscino di cretonne a grandi fiori colorati e aspettare che ritornino i volti, gli odori, i sapori dei piatti assaggiati furtivamente. Come in una lanterna magica si presentano le figure che da lì sono passate o che vi sono entrate attraverso i ricordi e le parole di altre donne.

Sacerdotesse ammantate di vapore, odoroso di vaniglia, attraverso il quale, come antiche Pizie, si manifestano e tornano a parlare. Maghe distributrici di spezie e depositarie dei loro segreti: noce moscata, chiodi di garofano, pepe macinato di fresco manipolati ad arte per creare commistioni di ingredienti che sono anche commistioni di conoscenze scambiate fra donne di luoghi diversi, capaci di mirabili alchimie nel riutilizzo degli avanzi.

Da sempre nelle antiche culture la cucina stava al centro della casa: luogo conchiuso ma non isolato nel quale il femminile ha esercitato la sua potenza creatrice. Punto d’arrivo nel quale molte esperienze si incontrano e dove la socialità si mischia con il privato e con il sacro. La cucina era il luogo in cui si offriva cibo ospitale, in cui si accoglieva con compassione; luogo di religio, una religiosità semplice, fatta di piccole cose, di gesti e di sentimenti antichi: la recita del rosario, il “recitar cantando” delle litanie. Era luogo della cura: qui, nel posto più caldo della casa, si allattavano e si lavavano i bambini e nutrire e lavare sono gesti di un rituale antico connotati di sacralità. Qui la parola si faceva canto per indurre il riposo con la ninna nanna o per rallegrare i più piccoli con le filastrocche.

Nella cucina si esercitavano le arti del cucire e del tessere in una pratica di pazienza e attenzione che ha a che fare con la preghiera. Era luogo di elementi primi: l’acqua e il fuoco, e di trasformazione: mischiare, impastare, sciogliere, cuocere richiamano la pratica alchemica di trasmutazione della materia. “La cucina è diretta prole della magia, dell’alchimia e le volute di vapore, i fuochi, le nubi che si addensano sulla cappa sono il pegno del nostro legame con gli antri dove la materia del mondo bolle, si coagula, si riscatta, metamorfizza il mondo trasfigurandolo” [2].

La cucina era un rifugio rassicurante, consolatorio, a volte gratificante per far fronte ai dolori ed alle difficoltà del vivere. Lì si pronunciavano parole a bassa voce in una intimità che parlava di figli, di timori e di gioie inattese, di morte e di nascita, talora di guerra: un’epica del quotidiano che nulla aveva di spettacolare ma che, come il dire di antichi cantori, sapeva tramandare e tener viva la consapevolezza della propria identità. Lì prendevano corpo le storie che mai avrebbero potuto oltrepassare la soglia del privato, eppure il racconto reiterato degli accadimenti li trasformava in memoria condivisa, creava solidarietà e permetteva di conservare gelosamente la continuità con le proprie radici.

Odisseo alla Corte dei Feaci racconta le sue peripezie, l’uditorio si commuove, rivive gli accadimenti attraverso la narrazione e allora si crea quell’empatia che è fondamento di appartenenza. Così accadeva nel megaron la grande stanza del palazzo omerico in cui l’aedo faceva rivivere le epiche gesta degli eroi e così accadeva nelle cucine d’un tempo nelle quali si conservava e si tramandava un patrimonio di vicende e conoscenze che diventava cultura. Una scansione del tempo lenta, attenta ai particolari, amorevole, accompagnava la preparazione degli alimenti in un ritmo del fare che scorreva fluido, rassicurante, prevedibile proprio come una cerimonia religiosa.

Tutto si compiva attraverso regole mai scritte: norme tramandate mediante una sorta di codice d’onore che sottolineava il profondo rapporto rituale fra il cibo e le situazioni in cui veniva preparato e consumato. C’erano menù codificati che sottolineavano le feste comandate o le ricorrenze che assumevano un particolare significato all’interno della famiglia: onomastici, compleanni, anniversari o anche semplicemente giorni di qualche memoria. Per nulla al mondo si sarebbero modificati il tipo di cibi e la loro sequenza.

E dunque certi piatti preparati soltanto in quelle occasioni servivano a creare legami profondi, abitudini che consolidavano sentimenti e mantenevano in vita ricordi ed emozioni. E c’era una cadenza che seguiva i giorni della settimana e sanciva un ritmo dell’alimentazione nonché dell’esistenza in parte ancora legato ai cicli stagionali. Una storia del cibo che è storia di vita, storia delle donne che lo hanno preparato come espressione d’amore con sacrificio, fatica e abnegazione non sempre riconosciuti. “C’era una vita parallela e completa che si svolgeva in quelle cucine che erano zona franca per le donne e le loro storie. E c’era una lingua per raccontarle. Una lingua privata ma comune, una lingua segreta e creatrice, una lingua direi quasi difensiva per condividere una vita “altra” rispetto a quella degli uomini, a quella del sociale e del politico” [3].

Era una lingua orale anche se la necessità di spiegare le ricette, di trasmettere ad altre il proprio sapere diventava talora occasione per scrivere, un’occasione importante se pensiamo al lungo tempo durante il quale la scrittura è stata privilegio maschile. Anche la lingua delle cucine nascondeva una segreta poesia paragonabile a quella delle donne cinesi che ne inventarono una per scrivere versi all’insaputa degli uomini che le pensavano intente alle opere femminili in un sommesso bisbigliare che quasi non poteva definirsi parola né tanto meno discorso.

È la lingua che rende udibile il silente fare delle donne, che coglie il lieve fruscio che prelude ai grandi gesti, che sa trovare le parole dolci per le medicine amare, che abbraccia la paura e la consola, che tocca l’anima e la riscalda, la lingua che dà i nomi alle cose perché ogni nuova creatura sappia riconoscere il mondo e ritrovare sul sentiero le briciole del pane impastato con l’acqua della vita. Chi saprà ancora comprendere e parlare questa lingua nella dilagante spettacolarizzazione mediatica della preparazione di un cibo che non conosce la sacralità, che non ascolta il profumo caldo del fuoco che cuoce e trasforma, che ha perduto la cadenza lenta e rassicurante del rito?

A cura di Save the Words®

[1] C. Simic, Il cacciatore di immagini, Adelphi
[2] F. La Cecla, La pasta e la pizza, Il Mulino, in F. Rigotti, La filosofia in cucina, Il Mulino
[3] G. Berengan, La Cucina delle Donne, Il Passaggio Edizioni