In numerose zone di produzione vinicola, hanno operato gli eredi di un’arte antica tramandata di padre in figlio per generazioni e intimamente legata al vino, il prodotto simbolo della tradizione popolare.

Nell’antichità il vino era conservato, in maniera approssimativa, in vasche di pietra e otri di pelle. Per il trasporto erano utilizzate anfore, giare e altri recipienti di terracotta tappati con sugheri e sigillati con pece, argilla o gesso. Furono i Celti, provetti maestri d’ascia, a sostituire quei contenitori facilmente soggetti a rotture con rudimentali tronchi d’albero scavati all’interno, dando ufficialmente inizio a un procedimento che terminerà molto tempo dopo con la realizzazione della botte. Infatti, unendo alcune liste con cerchi di legno di salice, furono costruiti recipienti conici più funzionali e, grazie a nuovi perfezionamenti, si giunse alla forma arrotondata, panciuta e chiusa facilmente trasportabile che conosciamo. In seguito, la tecnica fu ulteriormente migliorata e, con l’adozione della cerchiatura di ferro, si arrivò a botti di sempre maggiori dimensioni destinate alle cantine delle nobili famiglie come quelle dei Ricasoli e degli Antinori, due tra i più antichi casati del nostro Paese che si sono sempre dedicate alla viticoltura.

L’importanza del mastro bottaio è andata aumentando di pari passo con la diffusione del consumo del vino che, nel periodo tardo medievale, grazie all'impulso alla produzione dato dai Benedettini e dai Cistercensi, al miglioramento delle tecniche di conservazione e al sostegno dell’influente corporazione dei vinai raggiunse in pratica tutte le tavole fino a trovare in quelle rinascimentali un posto di primo piano. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, inoltre, nacquero in Italia numerose grandi case vinicole specializzate nella produzione di Vermuth, di spumanti e di altre tipologie di vino che, come il Barolo, prevedono un lungo invecchiamento. Inoltre, nelle campagne era talmente diffusa l’abitudine di produrre e conservare in casa il vino destinato al consumo domestico che in sostanza ogni cascina possedeva almeno una botte.

Anche il botalè, come la gran parte degli artigiani, univa forza fisica, passione e una grande esperienza. Infatti, per arrivare a costruire quelle grandi botti monumentali, capaci anche di duecento ettolitri e in grado di durare secoli, era necessario un lungo apprendistato che iniziava con la realizzazione di recipienti meno impegnativi in legno grezzo e di modesta capienza, un tempo molto diffusi a livello domestico. Avevano nomi curiosi, quasi soprannomi da paese, come barile, tinozza, mastello o bigoncia, tradizionalmente usata durante la vendemmia per trasportare l'uva raccolta.

L’albero scelto veniva abbattuto subito dopo il plenilunio e tagliato in luna calante in modo che il legno, materiale vivissimo, risultasse più stabile. Prima di poter essere utilizzato, doveva essere sottoposto a una lunga e paziente stagionatura, indispensabile per ridurne l’umidità, accentuarne gli aromi migliori e disperderne le note amare e astringenti. Servivano grandi spazi perché, per rendere il più omogeneo possibile il procedimento che poteva durare anche alcuni anni, le cataste di tavole di quercia, frassino, ciliegio, castagno o gelso poste all’aperto e quindi esposte all’azione della pioggia e del sole, sollevate dal suolo per prevenire il marciume e disposte in direzione nord sud per favorire una migliore areazione, dovevano essere completamente ribaltate almeno una volta l’anno.

Al momento opportuno, il botalè selezionava le doghe già pronte e le piallava lateralmente in modo da ottenere una sagoma arrotondata. Per la costruzione della centina, cioè dello scheletro, usava tronchetti già naturalmente curvi. Passava quindi all’assemblaggio della struttura inserendo alcuni cerchi di ferro utili a sorreggere e fissare le tavole. Per facilitarne la curvatura e rendere più malleabili le fibre del legno, bagnava all’interno la struttura non ancora completamente riunita e la poneva sopra una fiamma per circa venti, trenta minuti, secondo il grado di tostatura desiderato. L’operazione richiedeva una notevole abilità e un buon olfatto per individuare con precisione il caratteristico aroma di caffè tostato che indicava la giusta “cottura". Dopo l’assemblaggio, inumidiva nuovamente la botte e accendeva un braciere al suo interno: l’uniformità nella formazione del vapore indicava se era "matura" cioè pronta a essere messa in funzione. L’opera era completata con la costruzione dei due fondi, dello sportellino utile per favorire la pulizia all’interno, e del cocchiume, foro situato in corrispondenza del diametro massimo, utilizzato per versare all’interno il vino e generalmente chiuso con un tappo di sughero o con uno zipolo, caratteristico bastoncino di legno. Naturalmente le difficoltà di lavorazione aumentavano in proporzione alle dimensioni della botte e al conseguente spessore delle doghe da utilizzare.

Considerato l’elevato investimento sostenuto in termini di lavoro e di materiale, facevano parte integrante del lavoro del bottaio anche le periodiche operazioni di manutenzione e riparazione dei recipienti. Dopo i travasi o gli imbottigliamenti, invece, per rimuovere cattivi odori e guarire il legno dalle muffe si eseguivano pulizie e lavaggi con vapore e acqua salata.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la fillossera, un aggressivo parassita proveniente dalle regioni orientali degli Stati Uniti d'America, mise in grande crisi la viticoltura, non solo piemontese ma di tutta l'Europa. Infatti, ci vollero più di trent'anni per debellare il flagello, ricorrendo all'innesto delle viti europee su quelle americane non soggette agli attacchi. Quell’evento insieme al progressivo abbandono delle pratiche legate alla produzione e conservazione individuali del vino oltre alla comparsa nelle cantine di moderni contenitori in cemento, acciaio e vetroresina hanno procurato la drastica riduzione nell’impiego dei mastri bottai.

La loro attività, oggi, si limita al settore della produzione di vini di alta qualità dove è ancora privilegiato l’uso di botti di legno. In molte fasi della lavorazione, però, l’innovazione tecnologica ha introdotto nuove tecniche volte a ottenere la tostatura "perfetta" tramite l’utilizzo di forni per la convezione ad aria calda e di vasche particolari per l’immersione in acqua bollente delle doghe. La barrique francese da duecentoventicinque litri di capienza è il tipo di botte attualmente più diffusa al mondo. La sua funzione affinatrice si esaurisce nell’arco di tre o quattro vendemmie ed è formata da una trentina di doghe prodotte con il rinomato legno di quercia proveniente, oltre che dalle foreste francesi di Allier, Tronçay, Limousin e Nervers anche da quelle di Austria, Russia, Ungheria e Portogallo.