Sempre più spesso il fashion design di oggi utilizza capi vintage per fare ricerca. Sport & Street intervista “Mr Vintage” Angelo Caroli, titolare e fondatore di A.N.G.E.L.O. Il suo è il forse più celebre archivio al mondo, con oltre 100.000 capi e accessori per il noleggio, lo studio, l’acquisto, l’ispirazione e tanto altro.

Etimologicamente tratto dal termine francese che designa la vendemmia o il vino d’annata, il “vintage” è oramai un fenomeno ubiquitario nella moda e nel design: dalle bancarelle alle boutique dedicate, dalle strade al casualwear, sino a raggiungere le passerelle - Stone Island di Massimo Osti e Maison Martin Margiela sono esempi perfetti - la presenza di capi usati, come ispirazione o come oggetto capace di vivere più volte, è oggi imprescindibile. Ciò che non tutti sanno è che la scintilla d’inizio si deve a un uomo che sin dagli anni Settanta ne intuì il potenziale. Stiamo parlando di Angelo Caroli, fondatore a Lugo di Romagna di A.N.G.E.L.O. Vintage palace.

Quando ebbe inizio la tua carriera e con essa il tuo ruolo di promotore del vintage?

Quando iniziai a 17 anni la mia molla iniziale fu il chiedermi: ”Perché si buttano le cose? Sono importanti!” Erano gli anni Settanta, il corrispettivo del blogger di oggi era il dj radiofonico. Pensando di avere cose da dire sulla moda iniziai a collaborare con Radio Music International. Conducevo una trasmissione di mezz’ora che ebbe successo. Nel corso di un’intervista, scoprii l’esistenza di un negozio vintage femminile, mi incuriosii e volli cercarne il corrispettivo per l’uomo. Fu allora che conobbi Mario Gulmanelli, il mio futuro socio. Partecipava alla Piazzola di Bologna, uno dei più storici mercati italiani dell’usato. Cominciammo ad andare a Prato a comprare capi e oggetti che io rivendevo ai coetanei a scuola. Capii di avere un futuro quando vendetti due camicie alla professoressa di chimica.

Avevi già l’indole del collezionista?

Inizio a collezionare dapprima per me, poi per la mia collezione, poi per il commercio. Agisco per istinto, poi mi perfeziono e arrivo solo dopo a capire il perché certi capi siano importanti o destinati a diventarli. Mi imbattei per esempio in capi importantissimi per caso, come un paio di jeans Levi’s (fu il jeans a dar vita alla mia prima collezione) creato durante la seconda guerra mondiale con le economie necessarie in tempo di guerra: era sofferto, strano; ci misi 10 anni prima di scoprire che era un pezzo importante, ma lo era. Mi è poi successo che nei primi anni Novanta gli stilisti della Levi’s venissero da me due o tre volte all’anno da San Francisco. Consultavano il mio archivio perché non ne avevano ancora uno loro. Fu solo in seguito che le aziende capirono l’importanza di crearsene uno interno. Alla costruzione di tanti archivi ho collaborato anch’io: con Gucci, per esempio, cui ho venduto vari pezzi per il museo. Altri li ho tenuti, ovviamente. Quando hai capito che una passione poteva diventare destino? Quando nei primi anni Ottanta iniziai a vendere capi a Massimo Osti di Stone Island , uno dei primi stilisti che si avvicinarono al mio negozio. Mandava una persona a comprare cose della mia selezione trovandole molto importanti. La sua fu tra le prime aziende a fare un archivio proprio mandando persone in giro. Cercava quei capi militari del passato su cui basava la sua ricerca stilistica.

Come trova i pezzi?

Prima compravo abiti gettati o li acquistavo ad altri commercianti, principalmente negli USA, che furono come per tutti il mio mito negli anni Settanta. Oggi compro più del 50% dei capi in Italia, e oltre il 50%, lo acquisto da privati che mi vendono il loro guardaroba, magari pregiato. Mi chiamano perché sanno che quanto mi vendono non va perso, ma viene conservato in un archivio. Tra i casi più recenti c’è quello di una famiglia nobile di Roma, i cui eredi hanno venduto la casa e hanno raccolto abiti di due zie, della madre e della nipote. Benché alcuni capi fossero molto rovinati, contenevano marchi importantissimi che hanno fatto la storia della sartoria italiana: Emilio Federico Schuberth, Sartoria Fabiani, Irene Galitzine. Ho più gusto, oggi, a conoscere le storie dei capi che tratto: un bell’aneddoto è quello di una signora che mi ha donato un abito commissionato a Schuberth per il diciottesimo della figlia, un meraviglioso abito in seta rosa anni Cinquanta, la gonna amplissima con rondini e peonie dipinte a mano; la madre fece fare una banda di tessuto dello stesso rosa dell’abito, con lo stesso dipinto, per applicarle al soffitto della stanza della figlia. Gli abiti sono parte di un mondo.

Perché ricorriamo al vintage per costruire le collezioni di oggi? Siamo forse meno abili o capaci che in passato?

Oggi lo stilista dedica meno tempo che in passato alla realizzazione del capo. Un tempo il sarto o l’azienda cercavano la massima espressione nel pezzo che doveva essere perfetto, dare il massimo sul tessuto, nei dettagli, nella resistenza al tempo. Non doveva logorarsi, doveva avere un’estrema qualità per sconfiggere la concorrenza. Adesso il marketing è più importante, il capo è più effimero. Conta il colpo d’occhio, anche perché un capo viene indossato meno. Inoltre hai una catena di montaggio dove non c’è più una stagione, ma ce ne sono 10… Oggi occorre velocizzare i processi: se vuoi per esempio fare un capo sportivo o militare e devi creare una tasca sportiva per una giacca, di certo non hai il tempo necessario a fare una ricerca tanto approfondita quanto quella per le tasche militari, studiate al decimo di millimetro. Quindi rivolgerti al passato presenta problemi già risolti. Può essere più facile, per lo stilista che non disegni, far fare direttamente il campione portando un capo vintage a esempio. Si veloci e si risparmia.

Il ricorso al vintage non alimenta una certa pigrizia creativa?

Non sono d’accordo. Oggi, nel 2015, dobbiamo conoscere il passato ed esserne consapevoli: se conosco il passato posso fare qualcosa di nuovo. Se non lo conosco, impiego una stagione per cercare di fare qualcosa che c’era già. Il passato ci serve da trampolino per il futuro.

Siccome di ogni idea ottima idea si può fare un uso perverso, tu cosa hai trovato di negativo nell’uso che si fa del vintage?

L’uso attuale del termine “vintage”. All’inizio la parola è servita a qualificare io modo dell’usato, dopo è stata utilizzata talmente a sproposito che qualunque rimanenza, anche solo di un anno, è denominata vintage. Così, una parola inizialmente affascinante è stata usato tanto male da farne un cliché capace di sminuire il significato originario.

In tempi di ecologia, riciclo, recupero delle risorse necessari, pensare al vintage come risposta è quasi automatico… ma qual è il vero futuro del vintage, secondo te?

Io lo vedo della tecnologia: nel rendere digitale l’archivio disponibile. Vorrei rendere la mia “biblioteca” accessibile al mondo di internet. Da 10 anni sto provando a farlo, ma per i miei mezzi è molto impegnativo. Mi auguro che in futuro sia possibile fare una unione d’archivi, in modo che questa biblioteca diventi sempre più grande.

Testo di Alessia Vignali

In collaborazione con le riviste di moda, Collezioni: www.collezioni.info