Se proviamo a riflettere su come noi conosciamo, su come accediamo al mondo che ci sembra tanto “reale” e inconfutabilmente al di fuori di noi, se proviamo a spingerci indietro, indietro, fino a dove ci sembra di cogliere le radici stesse del nostro processo cognitivo, le nostre certezze su tale inconfutabilità possono cominciare a vacillare. Ci ritroviamo a confrontarci con alcune problematiche che riportano al più antico quesito che i filosofi e gli esseri umani in quanto tali da sempre si pongono e che riguardano il processo stesso della conoscenza.

Può essere interessante considerare dove si giunge alla luce dei lavori scientifici di Maturana e poi di Varela sulla percezione visiva ed entrare nella loro epistemologia, che ne deriva, ma che anche li sostiene, in una sorta di circolo obbligato. Abbracciando sostanzialmente la loro teoria, ritengo che ad un livello, che io chiamo “radicale”, nulla si può dire sulla “Realtà” o non “Realtà” del mondo e di noi nel mondo. Noi siamo osservatori-costruttori del mondo in cui viviamo. Voler tornare più indietro, alla ricerca di un livello zero da cui tutto è iniziato, non è consentito. Ci troveremmo in un “loop”, come un circolo di Gödel, per il quale non è possibile definire dal nostro essere nel circolo e dal nostro costituirlo anche i limiti e le caratteristiche dei limiti stessi.

Posto questo, poiché costretti dal nostro essere esseri viventi incarnati in un sistema autopoietico a rinunciare a tendere dove la nostra mente ci porterebbe, verso un livello più radicale di conoscenza, possiamo scegliere, scendendo di livello, come considerare la “Realtà”. Non è un “osservatore” super partes che prende la decisione, ma siamo noi che scegliamo e costruiamo la nostra “realtà”, dal nostro punto di vista come osservatori. In questo livello e soprattutto in questo, l’unico a noi accessibile in quanto organismi viventi dotati di percezione, avvengono tutte le diatribe sulla consistenza e organizzazione del reale, attraverso le quali da sempre si scatena il dibattito filosofico, ed esso stesso, perciò, deve essere suddiviso in diversi livelli, che esprimono la gradualità dell’oggettualità della “Realtà”, partendo da un livello minimo in cui si può ipotizzare solo un qualche substrato “materiale-energetico” fino al livello massimo in cui materialità, in quanto oggettualità, e “Realtà” coincidono.

Accettando il livello “massimo”, poniamo che tutte le cose del mondo, i suoi oggetti, le sue caratteristiche materiali, siano pronte nella “Realtà”, a disposizione della nostra conoscenza. Rispetto a questi oggetti noi ci muoviamo nel nostro processo conoscitivo, tendendo ad essi come zoccolo duro e invalicabile, lì saldamente disponibile ai nostri controlli di veridicità del nostro conoscere e del nostro parlare. Incredibilmente, proprio dal cuore della conoscenza per eccellenza, quale è in genere ritenuta la conoscenza scientifica, nasce, invece, un livello minimo di pretesa di conoscenza a priori della “Realtà”, che è quello, a mio avviso, prospettato da Maturana e Varela, in cui l’“a priori” è dato dall’accettare che siano il “soggetto” e l’“oggetto” della conoscenza a determinarsi reciprocamente, a co-determinarsi nell’atto stesso del conoscere, in una sorta di “Non Realismo Cosale”.

Se si vuole considerare l’origine storica del loro modo di vedere la “Realtà”, si devono anche esaminare i loro studi sulla percezione visiva e più in particolare quelli sulla percezione del colore. In essi la consistenza oggettuale della “Realtà” si dissolve; ma essa non si svuota del tutto; continua a mantenere la sua “materialità”, tramite l’energia delle lunghezze d’onda della luce, cui noi dobbiamo poter accedere, per poter realizzare il processo conoscitivo, con i nostri strumenti di osservazione sperimentale. Dunque, materialità non particellizzata in oggetti, dunque “Non Realtà” nel tradizionale senso oggettivista del termine, ma “Realtà” in quanto “materialità”, comunque presente come substrato necessario alla conoscenza, oppure una “Realtà - Non Realtà” perché indefinita a priori nelle sue compartimentazioni oggettuali, realtà che all’improvviso si determina quando l’osservatore individua se stesso e il mondo dal caos della non-cosezza, come facendo collassare la funzione d’onda del magma indistinto, che Maturana presuppone all’esistenza di sé e del mondo, e nel collasso individuando se stesso e il mondo. Forse così si può intendere la posizione epistemologica di Humberto Maturana. Alcune altre considerazioni mi sembrano necessarie.

La prima riguarda ancora gli studi sperimentali sulla percezione del colore, considerati dai nostri autori di grande importanza per giungere alla loro nuova filosofia, come nel caso di Humberto Maturana, che da essi ha concluso che il sistema nervoso degli organismi viventi è un sistema chiuso e che non si può pertanto più distinguere fra “Realtà” ed illusione. Egli ci ha anche detto che il suo abbandono del realismo è stato graduale, ma il problema che qui desidero pormi è in che modo hanno giocato a questo fine i suoi studi sperimentali, ossia come può egli aver usato in un certo modo l’intero apparato sperimentale per poi giungere a sconfessare la possibilità di dire alcunché di unico sulla realtà. Ricordiamo la sua affermazione di essere un super-realista, di ritenere, cioè, che non vi sia una visione unica della realtà, ma tante visioni quanti sono i nostri punti di vista. Egli stesso, parlando dell’osservatore, ribadisce il fatto che l’osservatore conosce autonomamente o adoperando strumenti di conoscenza, che non sono altro che una sorta di prolunga delle sue stesse capacità percettive.

Dunque, in questa ottica, se pensiamo che gli stessi strumenti usati nei laboratori di scienza visiva non sono altro che ampliamenti delle nostre stesse abilità sensoriali, essi non ci garantiscono l’accesso ad una realtà “oggettiva”, indipendente da chi conosce; quindi, mi sembra si ripresenti di nuovo il rischio di ricadere, anche a questo livello della conoscenza, riflettendo su di essa, nel “loop conoscitivo” della conoscenza della conoscenza, senza poter dire nulla di più. Per essere più chiari, come possiamo usare i risultati della nostra indagine sperimentale per corroborare alcune nostre ipotesi, nella fattispecie proprio quella relativa alla non accessibilità ad una realtà a se stante, se non possiamo accedere a tale realtà?

Inoltre, mi sembra che nell’impossibilità di accedere ad una realtà rientri anche l’impossibilità di ammettere che altri abbiano punti di vista diversi dal nostro; mi viene infatti da chiedermi, stando all’argomento dell’osservatore, per cui noi e mondo siamo co-determinati, come potremmo confrontare il nostro con altri mondi co-determinati da altri osservatori se essi non fanno già parte del nostro mondo? Forse si ritorna all’argomento dell’uomo con la bombetta di von Foerster , con il quale questi ha inteso ristabilire la realtà della realtà, ma che invece non mi convince affatto. In effetti, lui inizia il suo ragionamento supponendo che l’uomo con la bombetta in testa sostenga di essere l’unica realtà e che tutto il resto sia solo nella sua immaginazione e quindi inizia già ponendo un qualcosa di “reale”, che è il suo uomo con la bombetta, che si contrappone a qualcosa di “immaginario”, che contiene il mondo e gli altri, con cui peraltro l’uomo con la bombetta riesce a dialogare, non si sa come.

Se fosse un dialogo con il suo immaginario, come potrebbe l’altro ad un certo punto essere “reale”? O lo può forse essere in maniera diversa da come è “reale” lo stesso uomo con la bombetta? Dalla possibilità di questo dialogo von Foerster fa scaturire il suo dire che paradossalmente ad un certo punto salta fuori che possiamo essere il frutto della fantasia di qualcun altro! Mi sembra che da questo si torni di nuovo a ipotizzare diversi livelli di realtà e non ad affermare l’esistenza di una realtà sola, perché non mi sembra ci sia motivo di credere che l’uomo immaginato dall’uomo con la bombetta possa diventare reale se non lo era già. Forse è questo il paradosso di cui parla von Foerster, ma così cadono proprio le premesse del ragionamento che comportavano un dualismo fra reale e immaginario.

D’altro canto possiamo pensare che sia l’uomo con la bombetta a far essere reale l’altro uomo e questo si può ipotizzare avvenga in due modi molto diversi fra loro, che aprono a prospettive filosofiche molto distanti, come già sappiamo: si può pensare che lui lo ponga come altro da sé, in un momento successivo al suo essere, con un movimento di fichtiana memoria, oppure che l’altro da sé nasca sin dall’inizio insieme all’uomo con la bombetta, come ci dice Humberto Maturana. La soluzione di von Foerster, che però non mi sembra consegua al suo argomento, almeno per come io lo interpreto, è il postulare direttamente l’esistenza della realtà nella quale «felicemente prosperiamo». Maturana dice, invece, che non si può distinguere proprio fra realtà ed illusione, poiché non possiamo dire nulla sull’esistenza o meno di una realtà pre-data fuori di noi; dunque, fa un passo decisivo verso una visione non dualistica della conoscenza. Considerando tale indistinguibilità, ovviamente cade il ragionamento di von Foerster. D’altro canto, l’osservatore di Maturana con il quale sorge se stesso e il mondo nel suo processo di distinzione risolve la difficoltà posta da von Foerster, poiché mette sin dall’inizio tutto sullo stesso piano di “realtà”, che è quello appunto che si genera al nascere dell’osservatore e del suo mondo.

Mi vengono però in mente altre questioni a questo punto, che mi sembrano di difficile comprensione, tornando a quanto detto poco sopra. Allora noi tutti, siamo in questo mondo già messi in comunicazione sin dall’inizio e forse è questo quello che Maturana intende quando afferma che, come l’osservatore, noi tutti viviamo nel linguaggio, nell’interezza di noi stessi. Allora la comunicazione è possibile a priori? Come si deve intendere allora la sua proposta, importantissima dal punto di vista etico, della possibilità che ci siano tanti punti di vista ognuno di essi ugualmente degno di rispetto? Se, infatti, consideriamo quello che lui stesso dice e cioè che per ogni osservatore c’è una specifica realtà, che contiene il punto di vista di ciascuno, e di ciascuno già in dialogo con gli altri dal proprio punto di vista, come possiamo pensare che ci sia un dialogo fra i differenti punti di vista, se essi appartengono a sfere del reale diverse fra di loro? Si può allora pensare che ci sia ancora comunicazione perché le realtà comunicano fra di loro? Se, altresì, noi e l’altro ci troviamo già comunicanti nella stessa realtà, come si spiega il differente punto di vista? O esso è già compreso nella sfera iniziale posta dall’osservatore che co-costruisce sé, il mondo, gli altri e i loro possibili punti di vista?

Non sembra questo quello che Maturana dice. Resta, perciò, a mio avviso, aperto il problema dell’intersoggettività, che per lui non è un problema, poiché noi siamo già come esseri viventi nel linguaggio già esseri comunicanti. È allora forse il linguaggio la sfera emergente di “realtà” che consente la comunicazione fra diversi punti di vista? Sappiamo che anche questo non è ciò che dice Maturana, che afferma che l’osservatore sorge nella descrizione che egli fa di se stesso e del mondo e delle relazioni fra sé e mondo e gli altri. Insieme al pericolo che a me sembra si possa correre, di restare invischiati in un’immagine che, nel tentativo di comprendere come nasca l’osservatore con il suo mondo e i suoi punti di vista, inevitabilmente ci riporta alla mente le monadi di Leibniz, lasciamo qua il discorso sul linguaggio, la cui complessità meriterebbe una trattazione a parte. Anche rinunciando a sapere come sorge l’osservatore, resta, a mio parere, il problema dei punti di vista, che potrebbero non essere più concepibili, perché noi, nel nostro determinismo strutturale, potremmo non essere in grado di “vederli”. Ma possiamo sospendere il nostro giudizio e scegliere di calarci direttamente nella circolarità autopoietica, poiché in armonia con il nostro gusto “estetico” e le nostre scelte etiche.

Un’altra considerazione, che, infatti, ritengo di voler fare, riguarda il perché sia avvenuta quella che ho chiamato la scelta di livello o meglio della gradualità del livello di “Realtà” effettuata dai nostri autori, o da altri, nel caso anche di scelte di diverso tipo. Ritengo che almeno in prima istanza non ci sia una “giustificazione” per detta scelta, se non quella della parsimonia di Ockam, come ci mostra Varela, e che essa derivi soprattutto dalla sensibilità e dal gusto “estetico” dei nostri autori o degli altri autori, i primi preferendo sposare l’idea della circolarità della conoscenza, con tutte le conseguenze di notevole spessore etico che da questo derivano. È pur accettabile, d’altro canto, il discorso dai nostri autori fatto successivamente, che ci mostra come una tale prospettiva epistemologica funzioni e apra orizzonti conoscitivi di particolare interesse, cui non avremmo avuto accesso, se fossimo rimasti incardinati alla visione oggettivista tradizionale, che finisce con il cristallizzare e immobilizzare il processo conoscitivo.

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Per approfondimenti e per i riferimenti bibliografici citati nell’articolo:
Mascolo Rossella, 2011, L’emergere della biologia della cognizione. La complessità della vita di Humberto Maturana Romesin, aracneeditrice.it
Alcuni passi sono citati dal libro dell’autrice di prossima pubblicazione: Dalla biologia della cognizione all'autopoiesi - fra Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela

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