La Theriaca, il farmaco e la panacea più ricercati dall’antichità fino alle soglie dell’età moderna, rappresentava la punta di diamante della farmacologia alessandrina ellenistica, risultante di studi scientifici dalle solide basi filosofiche sulla costituzione e fisiologia dell’uomo e sulle proprietà terapeutiche di piante e sostanze naturali. Era dunque un farmaco complesso e composito che basava la sua efficacia sull’interazione sinergica dei principi contenuti nelle sostanze che ne facevano parte.

Quando l’avvenuto contatto fra la cultura greca e quella romana iniziò a portare i suoi frutti sul piano pratico, al seguito di filosofi e artisti fecero la loro comparsa a Roma anche medici e preparatori di farmaci, attorno ai quali si creò un clima di curiosità ma anche di diffidenza, come Plinio e altri autori antichi attestano nelle loro opere.

Secondo Plinio, i Romani nei primi 600 anni della loro storia non ebbero una vera organizzazione sanitaria, sia a livello medico che di preparazione dei farmaci in quanto provenienti da scuole specifiche. Probabilmente non fu davvero così, ma senza dubbio a Roma non si arrivò mai in età arcaica al livello di speculazione e ricerca sistematica tipico delle scuole greche, e la medicina restò per lungo tempo di tipo ieratico, cioè curata dai sacerdoti, oppure patriarcale. Era il pater familias che si riservava di dare indicazioni sulle terapie da seguire e sul regime dietetico e motorio più adatti, che in una società di cultura agricola e militare come quella romana ben incarnavano l’ideale di forza e robustezza richiesta al civis romano: in un contesto tale i prodotti dell’orto erano la prima fonte di sostanze terapeutiche a disposizione sulla scia di tradizioni che si ricollegavano al sostrato latino ed etrusco.

Nella Naturalis historia Plinio sostiene che la natura ha riservato all’uomo rimedi già pronti, facili da trovare, estratti dalle piante: “Questi soli rimedi erano piaciuti alla natura, pronti in ogni luogo, facili a trovarsi e non dispendiosi, fatti con cose con cui viviamo ... elementi umili come gli ortaggi di cui facciamo quotidianamente uso e che sono, magari a nostra insaputa, maggiormente importanti per la nostra salute” (Plinio, op. cit., XXIV,1).

La convinzione di Plinio e il suo giudizio rispetto alla medicina non si discostano molto dal pensiero che egli riferisce essere stato proprio di Catone il Censore. Catone, nato nel 234 a.C. a Tusculum da una famiglia plebea e allevato secondo la tradizione degli antenati latini per diventare agricoltore, si distinse per meriti militari e politici completando in Roma tutte le tappe previste dal cursus honorum. Di Catone resta famosa l’opposizione aperta alla diffusione della cultura ellenistica in Roma - incoraggiata invece dal circolo aristocratico degli Scipioni -, che egli riteneva minacciare la sobrietà deicostumi che l’avevano resa invincibile, sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo individuo.

Catone fu oratore, storiografo e trattatista, autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum (l’insieme dei costumi degli antenati) contro le tendenze ellenizzanti dell'aristocrazia. I Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si conserva per intero soltanto il_ Liber de agri cultur_a, erano una serie di precetti e indicazioni pratiche su come gestire vari momenti della vita pratica e soprattutto la conduzione dell’azienda agricola a base schiavile.

Nell’introduzione Catone esprime apertamente la sua opposizione al dilagare della cultura greca a Roma: “Marco, figlio mio, a suo tempo ti dirò su questi greci, quello che ho saputo in Atene e come sia bene dare un’occhiata alle loro lettere, ma non studiarle a fondo; ti dimostrerò anche che la loro razza è perversa e malvagia. E ritieni che questo te lo abbia detto un vate: quando questa gente ci darà la sua letteratura, corromperà ogni cosa e ancora di più se manderà i suoi medici. Hanno giurato tra di loro di uccidere tutti i barbari con la medicina, ma facendola pagare affinché si abbia fiducia in loro e ci sterminino più facilmente. Anche noi chiamano barbari e ci insudiciano ancora di più chiamandoci Opici. Perciò ti proibii di servirti dei medici.” L’opinione di Catone sui medici nequissimum et indocile genus non era andata afffievolendo di molto nel tempo...

"I medici imparano a nostro rischio e pericolo e fanno esperimenti con la morte; soltanto il medico gode di impunità completa quando ha provocato la morte di qualcuno" (Plinio, Naturalis Historia, XXIX, 18).

Ero malato, ma tu, con cento
allievi, ti sei precipitato da me,
o Simmaco. Con cento mani gelate
di tramontana mi hanno toccato,
non avevo febbre ma ora
o Simmaco, ce l’ho!

(Marziale, Epigr. V, 9)

Andragora aveva fatto il bagno con noi,
aveva allegramente cenato
e al mattino è stato trovato morto.
Mi chiedi o Faustino,
la causa di una morte così improvvisa?
Aveva visto in sogno il medico Ermocrate.

(Marziale Epigr., VI, 53)

Secondo Plinio, Catone dimostrò con la sua stessa persona l’inutilità di rimedi così farraginosi e complessi come quelli che i medici di origine greca andavano pubblicizzando, morendo vecchio a 85 anni avendo fatto uso dei soli farmaci semplicissimi della tradizionale medicina domestica. Fra tutti i rimedi quello più valido a curare ogni tipo di malattia, secondo Catone, era il cavolo, che aveva virtù terapeutiche eccezionali. Quando il cavolo risultava poco efficace si poteva solo ricorrere alla magia... Ai tempi di Catone la malattia era considerata una prova che il vero uomo doveva riuscire a superare con le sue forze, con i rimedi offerti dalla natura e con gli insegnamenti di quegli antichi che avevano forgiato il vero carattere del cittadino romano.

Riporta Plinio a proposito del cavolo: “Innumerevoli sono le virtù del cavolo così come innumerevoli sono gli autorevoli autori che ad esso si sono interessati al punto che il lamentarsi per il cattivo odore che fa quando cuoce é veramente poco rispettoso. Il medico Crisippo ha dedicato in particolare agli usi medicinali di questa pianta un’opera divisa secondo le singole parti del corpo umano”. Catone, invece, afferma che "il cavolo è fra gli ortaggi il primo di tutti: si mangia crudo o cotto, purga il ventre e fa orinare bene, è salubre per ogni cosa” … “contiene esso solo per sua natura i vantaggi che trovansi nella mescolanza delle altre piante”. Combatte gli effetti del vino e se preso prima di bere previene l’ubriachezza; va usato su ogni piaga e tumore mettendovelo sopra pestato, “esso netterà le piaghe marciose e i cancri e li guarirà, cosa che non farà nessun altro medicamento”. Fra gli altri usi Catone indica quello contro il mal di testa, contro l’offuscamento e lo scintillio della vista, il giovamento allo stomaco e all’epigastrio, per le lussazioni e i problemi articolari, per i gonfiori che bisogna far scoppiare o riassorbire. Bollito libera anche dall’insonnia e dalla difficoltà di addormentarsi.

Catone inoltre consiglia di conservare l’urina di chi ha mangiato cavolo per usarla sugli infermi e per lavare i bambini che in tal modo “non saranno mai deboli”. Plinio conclude la carrellata sulle fonti citando l’uso fattone da medici di scuole greche: “la scuola di Erasistrato dichiara che non c’è sostanza più benefica per lo stomaco e per i tendini, e perciò prescrive di somministrarne ai paralitici e ai sofferenti di tremito e a coloro che espettorano sangue. Ippocrate prescrive cavolo cotto due volte con sale a chi è affetto da morbo celiaco e dissenteria, come pure nei casi di tenesmo, Apollodoro ritiene che si debbano bere i semi o il succo contro l’avvelenamento da funghi, secondo Epicarmo gli impacchi di cavolo sono molto utili nelle affezioni dei testicoli e dell’apparato genitale, e il risultato è ancora migliore se si uniscono fave tritate. Evenore impiega i semi di cavolo per facilitare l’espulsione della placenta e contro la morsicatura del toporagno”.

Plinio il Vecchio, nel I secolo dell'Era cristiana ci dà conferma del grande apprezzamento di cui godeva il cavolo, la pianta miracolosa che aveva permesso ai Romani di fare a meno dei medici per sei secoli. La diffusione del cavolo sulle mense non venne meno con il passare del tempo. Nel '500 veniva usato come lassativo: il suo succo unito al miele era ritenuto ideale per la cura della raucedine e della tosse. Presso le popolazioni marinare, il cavolo (assieme alla cipolla) era l'alimento tipico degli equipaggi delle navi, utilizzato per compensare le diete necessariamente povere durante i lunghi viaggi per mare. Nel 1600 il brodo di cavolo era raccomandato in tutte le affezioni polmonari, raffreddori, catarri, laringiti, ma anche per curare la pleurite e i reumatismi. Ancora oggi in campagna si usa applicare le foglie di cavolo esternamente sulle ferite.

Articolo di Annalisa Cantarini

In collaborazione con: www.abocamuseum.it