Ormai Leonard Cohen è circondato da un’impenetrabile aura di rispetto, del resto comprensibile per un distinto e pacifico signore che ha appena compiuto ottant’anni. Ogni volta che un suo nuovo disco sta per arrivare nei negozi, prima di qualsiasi giudizio, è prassi presentare una dichiarazione di stima al limite della prostrazione. Anche per questo, per il fatto che si tratta di un meccanismo automatico, è un sollievo constatare, come è accaduto nelle due occasioni più recenti, che questo rispetto e questa ammirazione sono giustificate. La genuflessione è facoltativa, e per sgombrare il campo da qualsiasi millantato distacco, dico subito che personalmente ho la rotula consumata da decenni di pratica.

Popular Problems, il seguito di Old Ideas è il tredicesimo album in studio di una carriera lunga e leggendaria, anche se fatta di pochi lavori pubblicati, ed è un capitolo che, se prevedibilmente non raggiunge gli apici dei capolavori assoluti, conferma il Grande Canadese in una vena felice e vitale. Le parole, man mano che il tempo passa, sono sempre più attentamente levigate: sembra che Cohen abbia scolpito via ogni strato superfluo, ogni ornamento sovraccarico, rendendo i testi più diretti, più sinceri, scrivendo canzoni in cui saggezza, umorismo, franchezza, commozione e lucida capacità di raccontare la tragedia trovano una sintesi definitiva. La musica è un veicolo, ma funziona: ci sono momenti più ispirati, altri affidati al mestiere e al pilota automatico, ma davvero in questo caso sarebbe un esercizio fine a se stesso concentrarsi su quello che conta meno.

Il disco si apre con un organo blues che, insieme alle atmosfere gospel e alle escursioni tra country e soul, costituisce la struttura portante di un disco molto semplice dal punto di vista della musica, composta a quattro mani con Patrick Leonard, che fa un passo avanti dopo la produzione di Old Ideas. Il testo di Slow è una specie di autocertificazione, un elogio della lentezza apertamente allusivo che avverte chiunque ascolterà le canzoni seguenti, e in fin dei conti anche chi ha ascoltato quelle che le hanno precedute (“And it’s not because I’m old/I always liked it slow”), visto che il 99% della produzione di Cohen non permette al metronomo di aumentare i battiti. Il brano che arriva dopo, Almost like the blues, è pieno di amarezza, una radiografia spietata del ventunesimo secolo, un quadro apocalittico come non si ascoltava dai tempi di The future. C’è posto per la commossa partecipazione che consuma fino all’esperienza della morte, “I have to die a little between each murderous thought/and when I’ve finished thinking I have to die a lot”, e per una corrosiva ironia, quando in mezzo a torture e omicidi, Leonard mette anche le cattive recensioni.

Si continua a descrivere la devastazione in Samson in New Orleans, dove parlando della città travolta dall’uragano, Cohen canta “You said this could not happen/You said how can this be” e poi si chiede “Was our pray so damn unwhorthy the Son rejected it?” C’è la rabbia per una preghiera inascoltata, ma anche la supposizione che esistano risposte inconoscibili: “There’s other way to answer that certainly is true/Me, I’m blind with death and anger and that’s no place for you”. Il terzo capitolo dell’apocalisse coheniana (A street) si riferisce all’11 settembre 2001 (è stato scritto in quel periodo) quando parla di “un angolo dove una volta c’era una strada”, mentre Did I ever love you si risolve in una serie di domande che, dopo una delicata introduzione al piano, prova a liberarsi in un country giocoso affidato alle coriste, mentre l’autore si limita a declamare quesiti sulla propria capacità di amare: “Was I ever someone who could love you forever? (…) Did I ever love you/ Does it really matter?”.

My oh my è una ballad dondolante che funziona bene nell’intento di far canticchiare le sue strofe ridotte all’estrema semplicità, mentre Nervermind è tutto fuorché cantabile: sostenuta da un ritmo pulsante, è una “spoken song” che indaga attorno a un rapporto con amara disillusione: “And all of these Expressions of the Sweet Indifference some call love” E’ la descrizione di un amore che si fa guerra, in cui l’autore si dichiara sconfitto: “I could not kill the way you kill/I could non hate, I tried I failed” ma alla fine si consola quando riflette “My woman’s here, my children too/Their graves are safe from ghosts like you”. In Born in chains tornano i temi biblici, torna il riferimento alla tradizione religiosa, torna la poesia in forma di preghiera: “Word of words and measure of all measures/Blessed is the name the name be blessed” ma anche la consapevolezza dei propri limiti: “Written on my hearts in burning letters that’s all I know/I cannot read the rest”.

Il violino ispirato di Alexandru Bublitchi apre la promessa che sigilla l’album, You got me singing. Se in apertura Cohen aveva parlato di sé come cultore della lentezza, qui vuole rassicurare tutti sulla volontà di cantare l’hallelujah anche quando il fiume sarà secco e il mondo sarà andato. Anche in quel momento, giura Leonard Cohen “You got me thinking I’d like to carry on”. Il nostro uomo non si ferma, insomma, ha intenzione di tirare avanti ancora un po’, come minimo fino al prossimo disco, che pare sia già pronto, e forse anche di più, perché ci sono canzoni nascoste nel suo cassetto dell’ispirazione, che meritano di nascere. E in fondo è questa la promessa che chi lo ama vuole sentirsi fare.