L’inaugurazione dell’Expo milanese del 1°maggio con la prima scaligera della Turandot è stata una stimolante occasione per fare il punto su questo ultimo capolavoro pucciniano, sul suo valore intrinseco e sul suo significato nell’ambito della tradizione operistica italiana e nell’ambito della contemporanea musica europea. Occasione tanto più significativa perché, se l’opera venne proposta in prima assoluta proprio nel teatro milanese il 25 aprile 1926 con la direzione di Arturo Toscanini, l’attuale rappresentazione presenta per la prima volta alla Scala il finale composto da Luciano Berio sugli appunti pucciniani.

Capolavoro di sintesi delle nuove tendenze musicali europee o compromesso tra melodismo, tecnicismo e cineserie? “Canto del cigno” della tradizione operistica italiana o coraggiosa apertura per una nuova stagione della lirica? Di questo hanno discusso e discutono critici e appassionati. Luigi Rognoni giudicò la Turandot opera sostanzialmente manierata e appesantita da sovrastrutture improprie, salvata solo dalla figura di Liù, espressione dell’ultimo romanticismo pucciniano. Perplesso anche Massimo Mila che vide nell’opera del maestro toscano un freddo tentativo di accostarsi a modi e stili che presupponevano tutt’altra formazione culturale. Più recentemente, Giulio Montecchi l’ha giudicata vertice assoluto della produzione pucciniana, “nonché capolinea dell’opera novecentesca … Turandot pone la parola fine alla storia dell’opera in quanto sintesi della cultura spettacolare espressa dall’Europa moderna”.

Ma chi ha scavato più a fondo sul significato più intimo della genesi dell’opera è stato Leonardo Pinzauti, che ci descrive il Puccini dell’immediato primo dopoguerra come una persona attanagliata dall’incubo della decadenza e dall’incipiente vecchiaia, insicuro della sua stessa virilità, tanto da pensare a sottoporsi alle cure ringiovanenti di Voronoff; delle sue antiche passioni, non gli rimanevano che la caccia e le auto, che cambiava e aggiornava nevroticamente in continuazione. C’era bisogno di un’iniezione ringiovanente anche nella musica, ma era combattuto tra la diffidenza verso i rivolgimenti più radicali (aveva giudicato “roba da matti” Le Sacre du Printemps e si rammaricava che il pubblico non apprezzasse più la vera melodia, attratto da “musiche illogiche, senza buon senso”), d’altra parte era curioso di tutto quello che, per intuito, più che per scelta logica, gli faceva balenare l’occasione di svecchiare e rinvigorire la sua musica. Per questo, ad esempio, nel 1924 accorse a Firenze ad ascoltare il Pierrot Lunaire di Schönberg e, alla fine, si soffermò con l’autore esprimendogli interesse per le sue radicali teorie.

Sta di fatto che il compositore si buttò anima e corpo in questa palingenesi, tanto da scrivere al suo librettista Adami: “Il gran canovaccio c’è e c’è pure l’opera originale e forse unica”. E in questo contesto s’inserisce anche il problema dell’incompiutezza dell’opera: fu una costrizione imposta dalla malattia e dalla morte o l’impossibilità di concluderla in quel modo trionfalistico che sentiva ormai lontano? Claudio Sartori, a questo proposito ha sottolineato che: “Puccini non avrebbe potuto acconsentire al proprio puccinismo, a rifare se stesso. Preferì morire abdicando. L’opera dunque non rimase incompiuta per mala sorte; non potè essere finita perché la programmata conclusione trionfale ripugnava alla mente stessa del compositore”.

Gli Amici della Scala, nella loro tradizionale anteprima degli spettacoli scaligeri, Prima delle prime tenuta nel ridotto del teatro, hanno dato la parola a Riccardo Chailly, direttore dell’attuale edizione e a Michele Girardi, docente di drammaturgia teatrale, specialista del maestro toscano, per un rivelatore dibattito sui significati, i crediti e i debiti dell’opera. Chailly ha sottolineato l’importanza della ricerca di rinnovamento operata in Turandot, una composizione che l’aveva affascinato fin da quando a 10 anni l’aveva ascoltata per la prima volta. Nell’opera riscontriamo infatti l’eco della rivoluzione dodecafonica, così come sfumature debussyane, in particolare derivate da Pelleas e Melisande, notevole anche l’eco dell’orchestrazione bartokiana nello stile del Mandarino Meraviglioso, ma non mancano anche riferimenti al gershwiniano Porgy and Bess e alla Salome di Strauss.

Il finale di Luciano Berio, che Chailly stesso aveva diretto per la prima volta al Festival delle Canarie nel 2002 e poi, in forma scenica in Olanda, con la regia di Nikolaus Lehnhoff (la stessa dell’attuale rappresentazione scaligera), si discosta dalla scontata versione di Alfano, recuperando l’indicazione di Puccini, che aveva accennato a un finale alla Tristano, in un’atmosfera di sospensione dove s’intrecciano amore e morte. Il completamento, secondo Chailly, esprime anche la grandezza di Berio, un musicista che sapeva andare “sotto la pelle” all’autore che avvicinava. Il direttore ha poi concluso esprimendo polemicamente la sua perplessità sul fatto che quando si parla di Puccini si riconosca quasi sempre la sua grandezza melodica, fatto indiscutibile, ma s’ignori che questa melodia si accompagna a una presenza armonica, con una continua tavolozza timbrica che gira attorno alla melodia: anche per questo la musica di Puccini non cessa di stupire. Michele Girardi ha contestato l’interpretazione di una Turandot come epitaffio del melodramma, ma, al contrario, ha affermato che va vista come impresa titanica proiettata verso il futuro.

Ci troviamo di fronte al vertice dell’arte pucciniana, dove la tecnica orchestrale, la vocalità, il ritmo, l’armonia costituiscono un organismo inscindibile. Puccini ha messo dunque a disposizione dei nuovi musicisti italiani, da Maderna a Berio, da Bussotti a Nono, gli strumenti per sperimentare nuove soluzioni e inserirsi nel grande filone della musica contemporanea europea. Per quanto riguarda il finale di questo “capolavoro senza fine e finale”, l’unico che, ad avviso di Girardi, avrebbe potuto, per intelligenza stilistica e per la capacità di affrontare drammaturgie inusuali completare l’opera, sarebbe stato Ravel, ma a questo punto ci sarebbe da chiedersi se è meglio “completare” una composizione con un’aggiunta estrema, o presentarla, come avvenne alla prima della Turandot del 1926, nella sua parzialità.

D’altronde, il problema del finale era molto più complesso, perché si trattava di accordare un libretto tradizionale, dove risultava difficile capire come mai l’algida principessa Turandot diventasse improvvisamente focosa amante, con una musica che esprimesse, invece, un senso di inquietudine e sospensione. Eugenio Montale, recensendo una Turandot, importante prima scaligera del 1958, scriveva che si trattava dell’opera “la più complessa, la più nuova, e forse, a tutt’oggi, la meno compresa dalla critica e dal pubblico, fermi al “cliché” di un Puccini operista borghese” e si preoccupava del gracile finale di Alfano, con un “lieto fine” piuttosto convenzionale.

La nuova conclusione di Berio, di grande finezza musicale e di profonda suggestione emotiva, è forse andata al di là di quello che Puccini avrebbe potuto fare, ma gli sarebbe senz’altro piaciuta perché sembra proprio rispondere al suo tormentato travaglio di trovare un finale innovatore, nell’azione e nella musica, a un’opera che diventava il suo testamento musicale e di cui scriveva con entusiasmo: “Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più”.